Non era ancora il 2000 quando Paul Thomas Anderson [PT d’ora in poi] mise mano alla sua sceneggiatura e iniziò a trasformarla nel film che avrebbe lasciato un segno indelebile nell’arte del linguaggio cinematografico e, in maniera inversamente proporzionale, relativamente considerato dal grande pubblico.
Nel 1999, il negativo di una pellicola per il cinema costava ai produttori 1,20 dollari ogni trenta centimetri e anche se i 25.000 dollari spesi per ogni giorno di riprese (si parla soltanto della pellicola) porteranno a inevitabili pressioni durante la lavorazione, le intenzioni del regista, tanto “presuntuose” quanto ineludibili per un film che sarebbe durato più di tre ore, saranno sostanzialmente rispettate.
Il budget superato, così pure i giorni di lavorazione previsti, preoccupavano comunque la New Line che era ancora lontana dai guadagni travolgenti de Il Signore degli Anelli e fu soltanto per il successo del film precedente di PT (e sempre da New Line distribuito) che fu concessa altra fiducia all’autore.
Dettagli tecnici questi qui sopra, venali, ma che servono per capire meglio la volontà e l’amore profusi in questo film. Film difficilmente inquadrabile tra i generi: - un’opera corale di forte impatto emotivo, dove lo sviluppo delle storie (nove principali tra loro) non si risolve attraverso una formula classica delle varie vicende che si susseguono, bensì in un continuum scandito da un ritmo inesorabile, sempre coinvolgente, di là di tempi a volte dilatati, a volte concitati.
Di cosa parla MAGNOLIA?
Diciamo che la non-risposta a questa domanda è il motivo per cui è bello parlarne. Ho già scritto di questo film e non mi stanco mai di farlo. Sarà perché è il film della mia vita o magari perché è il film della mia vita, o forse perché è il film della mia vita ma credo che questi tre motivi dicano nella maniera corretta come non si possa che mostrarsi irrazionali di fronte a questa domanda.
Ho deciso di prendere d’istinto degli aspetti in particolare per farne un articolo. Non solo perché è un’opera complessa (basti sapere che Wikipedia stessa “rifiuta” di sintetizzare una trama ammettendone la fatica), ma anche perché le tensioni emotive e l’umanità che pervade le vicende sono come uno specchio che si deforma diversamente secondo chi vi si trova riflesso.
Magnolia potrebbe essere una digressione filosofica sulla responsabilità del Caso nella Vita, ma anche un trattato sul mistero della sincronicità, quali derive psicologiche vengono a imporsi a seguito di eventi come morte, abbandono, tradimento, malattia. Magari di come ciò che “può accadere” senza un perché, possa divenire per tutti una lezione e per ognuno una lezione diversa.
Magnolia inizia con un “siparietto” e una voce fuori campo, quella di un umile narratore e le sue opinioni: - non è propriamente un prologo; di per sé rimane un piccolo gioiello di diversi stilemi congegnati insieme, carico d’indizi nascosti e piccoli segreti. PT tesse da subito una piccola rete, pone un comune denominatore, ma lo fa sopra le parti e il soggetto che seguirà, prima ancora che i titoli di testa si mostrino al pubblico.
Puoi chiudere con il passato ma è il passato che non chiude con te.
Un magnifico Jason Robards impone il ritmo a tutta la storia, nonostante sia tra i protagonisti con le battute più chiuse, brevi, aspre, terminali come la sua malattia, lui, uomo di potere inchiodato al suo stesso letto, morente, spietato, cinico e dolcissimo insieme, torturato dai ricordi, mette in moto la forza tragica del “Bene e del Male” e, soprattutto, funge da demiurgo inconsapevole (sembrerebbe una contraddizione ma non lo è) delle vite che lo circondano. Un demiurgo che riesce a scatenare le più antitetiche reazioni ed emozioni tra chi l’ha conosciuto e chi no. Tradito e amato, padre infame, marito tremendo, nei suoi ultimi giorni è in balia dei suoi rimpianti. Testimone di tutto ciò, il suo infermiere personale (P.S.Hoffman) che, affezionatogli, grazie alla sua determinazione, non si fa ingannare dall’uomo rude che appare ai suoi occhi ma sa vedere oltre quella scorza un uomo che chiede aiuto. Nonostante appaia sempre più una missione impossibile, l’infermiere riesce ad avvicinare in un ultimo istante due Vite in fuga da loro stesse, quella del ricco sul letto di morte e quella del figlio che aveva fatto perdere le sue tracce in una vita sotto falsa identità. Frank T.J. Mackey, così si fa chiamare il figlio, non ha ricevuto amore, non sa ammettere quanto ami il padre, non ha potuto salvare la mamma gravemente malata e abbandonata: - è solo, tremendamente solo; Frank ha trasformato il dolore e la rabbia in un suo mondo cinico da vendere e difendere …
"Rispettate il cazzo e domate la fica"!
Non che le prediche machiste e spietate di Frank dicano menzogne, perché i sermoni di Frank il guru (Tom Cruise) di “Seduci e Distruggi” (questo il titolo delle sue conferenze) attingono da una verità sostanziale, “animalesca e antropologica” come urla invasato alla platea il suo personaggio. Sermoni e iperboli a effetto, usati come una lente d’ingrandimento sul suo pubblico, amplificano spietatamente la prepotenza e le ipocrisie di un sesso debole che debole non è …
… Frank ha trovato la gallina dalle uova d’oro e vende le sue tattiche in antitesi a quel playboy che conquista perché ama, bensì le vende a chi conquista poiché disprezza. Il “riscatto” di Frank è in verità una fuga dalla realtà e dal suo cuore, sublimata e possibile grazie alla massificazione dei ruoli di oggigiorno, dando ai deboli - ma anche ai gonzi - l’illusione di sentirsi i Re della foresta, ma che trova moventi profondi nella psicologia umana di tutti i tempi.
Pane al pane e vino al vino, non c’è alcun ricorso per dare impronte intellettuali alla pellicola e la sceneggiatura procede senza che una sola lacuna porti in fallo le storia, non una sola condanna morale è messa sulla bilancia e anzi, la volgarità e i termini forti sono alla mercé dai protagonisti e non viceversa, vengono e rimangono piegati a una forza disperata che li nobilita. Il film, come credo raramente sia accaduto, dice cosa è realmente il cazzo e cosa è realmente la fica; cosa è sesso e cosa è amore, cos’è il dovere e cosa passione, cosa è colpa e cosa il senso di colpa, cos’è redenzione: - cosa siamo noi tutti mentre mettendo ognuno la propria maschera, ci s’illude che la stessa non possa comandarci un giorno anche quando non vorremmo.
Il linguaggio di un cineasta.
MAGNOLIA si muove insieme alla sua macchina da presa sempre a cercare il suo soggetto, come lo inseguisse, lo pedinasse; la parte del leone la fanno le carrellate che portano lo spettatore a impattare come in un incidente stradale con i protagonisti della pellicola, i soggetti sono avvicinati in maniera serrata e noi rimaniamo prigionieri, costretti a guardare nelle anime altrui come se qualcuno ci spingesse a forza dentro. Nel preludio di un mare agitato, ogni protagonista è rapito dai suoi dolori, dalle sue speranze, dai suoi doveri e, come in un caleidoscopio, possiamo ammirarne i colori e le sfumature o rimanerne disturbati dai grigiori, invischiati negli spaccati quotidiani rappresentati fugacemente ma centrati nei significati. Possiamo cogliere la forza dei momenti ma senza riuscire a definirne i contorni, le misure, cosa è sotto cosa è sopra, quali le distanze: - rapiti da qualcosa senza conoscerne le logiche. Centrifugati negli occhi altrui fotografati senza pudore, improvvisamente il film apre il suo paracadute e cominciamo a mettere in bolla la linea dell’orizzonte. Smettiamo di precipitare. Finalmente scendiamo, cercando di osservare il terreno che si avvicina ma senza che manchino sferzate di vento a scuoterci …
… piano iniziamo a focalizzare i ruoli dal loro apparente disordine. Persone come noi e più lontane da noi. Divertente, grottesca, sarcastica, degradata e appassionata, la loro vita prende forma. PT non gioca col pubblico e non cerca di conquistarselo - prendere o lasciare - non c’è accondiscendenza, anzi, molto rimane da decifrare ma, e questo dà la misura del suo talento, permette al pubblico di giocare col film, ma solo se lo desidera.
La direzione artistica irreprensibile è quella che permette al Film ogni scossa e ogni salto tra i personaggi senza che si perda la bussola e, tra le sequenze, i differenti contrasti invece di pregiudicare la continuità rafforzano il crescendo. Se potessimo assegnare un parametro al linguaggio utilizzato da PT, allora dico che questa pellicola è figlia di Kubrick, Altman e Welles che non significa vi sia qualcosa di Kubrick, qualcosa di Altman e qualcosa di Welles - ma proprio che in una fantomatica ibridazione, i tre cineasti si sono fusi insieme creando qualcos’altro ancora: - Paul Thomas Anderson.
Wet is wet. Just that simple.
Si tenga conto che non si è detto nulla della colonna sonora usata forzatamente, sulla scelta delle musiche originali e non, sull’uso della cacofonia e suoni “nascosti”; dei momenti surreali ma anche assurdi, delle caratterizzazioni impressionanti dei ruoli minori, dei piani sequenza, degli argomenti più scabrosi come l’incesto indagati nelle conseguenze e senza vittimismi. Non si è detto di un intervento di biblica memoria senza che un Dio fosse inserito nell’equazione, di un programma televisivo all’interno del film stesso diretto in maniera strabiliante e di tutti i finali dove l’ultimo è solo il nome che Anderson vuole dare alla speranza ma che non ne lascia tante altre.
Mi guardo Magnolia minimo una volta l’anno da tredici anni e come per un libro degno di questo nome, non si potesse rileggerlo senza imparare altro di nuovo, non sarebbe un buon libro. Le cose sono molte, veramente tante da aggiungere e, per questo spazio virtuale, semplicemente troppe.
La cosa toccante, la quintessenza di Magnolia, quella che è artefice più di quanto si creda del nostro destino, è la disillusione. Quella che vive negli occhi di Stanley, il bambino costretto da un padre privo di scrupoli a mettere la sua sapienza al servizio di un Quiz televisivo; una storia che dice dei sogni e dei bisogni che siamo costretti a dimenticare, impoverire e, peggio di ogni cosa, a trasformare in altro. Per quel bambino c’è un’intera platea televisiva che dovrebbe gratificarlo, ma ormai la vede per quella che è: - un mostro senza testa in cerca di giullari e fenomeni da baraccone, che nulla c’entra con la passione che ha lui per il sapere, col suo bisogno di essere compreso. In parallelo col bambino prodigio, c’è Donnie Smith, un adulto che, come Stanley, fu un piccolo e famoso mago del Quiz e che ora vive una vita ridicola all’insegna di un passato più grande di lui. Un ritratto tragicomico, simpatico e insieme terribile che mostra due vite in una, a dirci come la mancanza d’amore, nel tempo, omologhi persone che sono diverse, in figure deviate e ugualmente patetiche…
… a ricordarci le infanzie uccise ogni giorno, disilluse, che alle loro domande dagli occhi grandi, tornano risposte corrette quanto gelide, ingabbiate e prive d’ogni immaginazione. La speranza forte e sottintesa in tutto il film è quella difficile da cogliere (cercatela) quella che ci dovrebbe ricordare come la pioggia non sia solo acqua che ci casca in testa.
Caustico.
La cifra filosofica e sociologica del film sta nelle parole scabrose citate in un sottotitolo di quest’articolo. Parole che nel film sono elevate come in un inno di liberazione prima ancora che di conquista. Esse celano questioni contrastanti. Non è una menzogna asserire che rispettare il cazzo e domare la fica, sia oggi cosa legata a un processo di liberazione, così come non è una menzogna sapere che porre la virilità in questi termini significa scatenare scenari degradanti. Rimane allora da chiedersi di cosa si è veramente prigionieri e cosa ci serve per crescere prima che le maschere si sostituiscano completamente a noi.
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Nota.
Il Trailer qui incorporato è stato curato dal regista stesso.
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