Lo schiaffo di aria umida che mi sono beccato in faccia, appena fuori la porta di casa, d’istinto mi ha fatto guardare in alto e lì, silenzioso, l’autunno comandava. Pochissime le stelle. Il freddo mi ha ricordato i suoi imperativi tra il blu della sera, la nebbiolina color piombo e le goccioline tremanti sulle carrozzerie delle macchine. Tra me e me, la prima riflessione del dopocena – “che dev’essere, però: da dietro i vetri, il freddo è meno freddo”. La seconda non l’ho tenuta per me e l’ho pensata a voce alta - “ma dove cazzo andiamo con ‘sto tempo??” …
… e infatti, belli belli, io e mio fratello, s’è optato per rimanere in zona; magari ficcarci in qualche Bar qui vicino, al calduccio, limitarsi a una chiacchera, vedere un po’ di gente, e bersi un prodotto (come diciamo in gergo).
C’è un bel Bar dalle nostre parti, ben gestito, accogliente, con una mitica stufa in maiolica color bordò poco distante dal bancone della mescita, che dà tepore solo guardarla; l’ambiente è prevalentemente in legno, con le luci che non ti sparano in testa o negli occhi, come può servire solo nelle sale operatorie (cosa che odio ed evito come la peste nei locali) bensì con luci soffuse che trapelano dai tessuti arancioni messi su lampade e faretti, sparsi qui e là come si conviene. Il capolavoro, sono i luccichii degli ottoni che portano la birra alle relative spine e fanno brillare gli occhi delle ragazze che lavorano dietro il banco. Fuori, si agitano al vento, sotto un piccolo portico, le lampade verdi pastello che disegnano con altri colori i tavolini all’aperto e le vetrate del locale…
Diamo la buona sera e, levate le giacche, sediamo a un tavolo, ci guardiamo intorno e, a un lato del bancone, non si può non notare un tipo distinto, sulla cinquantina, che parla da solo, impegnatissimo, con riverenza e compassata gestualità, non c’è che dire… evidentemente si sta simpatico. Della serie, l’alcol e i suoi disparati effetti.
Quando mio fratello si allontana cinque minuti a fare una telefonata, nell’attesa che torni, ordino il solito (due caffè), poi dò uno sguardo al quotidiano che era lì, sulla panca. Leggo con piacere che anche un giornale ridicolo come il Messaggero Veneto ogni tanto qualcosa la indovina; un articolo nella pagina dello spettacolo recensisce l’ultimo THOR al Cinema, sputtanandolo come si deve. Un film, per la cronaca, che giustificherebbe la fucilazione alla schiena per i responsabili.
Il futuro presente.
Mentre gusto il caffè, scandaglio la fauna locale nel locale. Per la maggiore, i più sono distratti dai loro smartphone, spesso ognuno per conto loro ma in maniera intermittente. Quando l’argomento è spiccatamente comune, allora succede perché tutti sono intenti a osservare un video tra le mani di un amico, di solito un filmato filmatino su Youtube Youtubbino.
Quando qualcuno non lo usa, allora il cellulare rigira come avesse vita propria tra le mani del proprietario, così come una paletta rigira tra le mani di un Vigile Urbano sulla Statale, in attesa del prossimo “cliente”. Un feticcio vero e proprio. Una ragazza seduta al bancone, di tanto in tanto, dà uno sguardo fugace al suo cellulare, poi, come in un piccolo e velocissimo rito, fa partire la sequenza:
Sblocco del display con apparente indifferenza;
Smorfia del tipo “Azz!!, nessuno mi ha scritto ancora..”;
A seguire, espressione di circostanza tra sé e sé;
Poi, sguardo di circostanza all’interlocutore;
Velocissimamente, blocco del display;
Sistemazione tattica sul bancone del marchingegno, alla giusta distanza;
Prosieguo della conversazione col tipo che ha di fronte, mentre con le dita accarezza la “schiena” del cellulare;
… cinque minuti, anzi meno… e di nuovo parte la sequenza, esattamente come prima.
Che dire.
“Azzzzz! come sono cambiati i tempi” - penso tra me e me, e continuo nei pensieri - “ci fai tutto con quelle cose lì: video, foto, prendi nota, registri, ti connetti col mondo intero, ascolti e passi la musica; gestisci appuntamenti in tempo reale, la posta elettronica, controlli casa tua stando fuori casa, video-telefoni, ci giochi, ci leggi i libri, gli chiedi che tempo fa, usi dei programmi per lavorare, puoi direttamente montare i filmati” …
…e tutte le altre centinaia di cose che sappiamo (e sapete meglio di me).
Un atteggiamento tipico, notavo, è quando in una compagnia di amici qualcuno prende a messaggiarsi (come si dice in gergo) con qualcun altro che non c’è, e la conversazione, invece di interrompersi venendo a mancare l’attenzione di uno del gruppo, continua in evidente stato di trance, come nulla fosse. Tanto, pare, né le chiacchere dal vero, né quelle virtuali, sembrano così importanti. Come se i due tipi di comunicazione - virtuale e reale - si annullassero tra loro quando si trovano a cozzare.
Tempo pochi minuti e sono assalito dai ricordi e torna alla mente la mia di gioventù. Di quando la sera si usciva in compagnia. Così inizio a perdermi nei paragoni tra i tempi di oggi e quelli di ieri, un classico; ma non era il caso di continuare con le nostalgie, che tanto mio fratello stava pure ritornando, quindi … chi se ne frega. Quando si siede, trova pronta una sorpresa, la scacchiera. Ordino una birra e gazzosa e il suo pedone bianco fa la prima mossa.
Credevo di aver finito con quei ricordi, ma il primo giro di manovella alla macchina del tempo l’avevo dato. Non sapevo che il secondo sarebbe arrivato da lì a poco, più prepotente.
Scacco matto.
“Non se ne può più!” … lamenta Matteo e giustamente, concordo con lui. La musica da discoteca di serie “B”, orribile, a volume non sostenibile e proprio dalla cassa gracchiante sopra la nostra testa, dava ai nervi. Non solo, aveva rovinato pure l’atmosfera che fino a quel momento era perfetta.
Il suo Cavallo bianco fa la mossa che non mi aspettavo, mangia il mio alfiere - scacco, e senza pietà sono battuto. Tanto meglio, è il segnale che aspettavamo. “Ora di cambiare musica! .. ssiore e ssiori” (sia letteralmente sia metaforicamente). Ripiego la scacchiera in due, paghiamo il conto, salutiamo e cerchiamo l’ultimo posticino per stare più tranquilli prima di tornare a casa. Fuori l’umidità è aumentata, al punto che pare abbia piovuto.
“Dove andiamo?”
“Se ti va un bicchiere di vino buono, ti porto in una taverna a cinque minuti da qui”.
“Perché no, con questo tempo ci sta da Dio”.
Mentre guido, gli racconto dei miei pensieri di prima. Così anche lui parte in quarta e si accoda alle annotazioni; rimembra cosa poteva significare soltanto telefonare da casa a un amico, quando si avevano sedici, diciotto, o vent’anni … com’erano organizzati gli incontri, come gli appuntamenti. Da lì, il passo è stato breve e andammo in un’escalation di paragoni:
- come si ascoltava la musica, come si scambiava tra compagni di scuola e amici a suon di musicassette o registrata dai CD, per i più fortunati; cosa significava fare una fotografia e attendere lo sviluppo del rullino, e quanto si teneva a quel “click”!!; cosa significava non ricordarsi una cosa …e non è che andavi su Wikipedia a controllare; cosa significava l’organizzazione di una serata, che non è che potevi cambiare idea a metà strada (chi era avvisato era avvisato). Cose queste, che a primo avviso, ora, possono sembrare scomode mentre in realtà davano un carico emotivo alle serate più sentito, più impegnato. Più ricercato. Non si sprecavano incontri e i locali stessi diventavano quel “telefono” che ora rigiriamo tra le mani; ambienti che servivano per comunicare, prima di tutto il resto.
- Spesso gli incontri erano belle sorprese e quello che adesso sarebbe considerato un contrattempo, prima era un’incognita che scatenava nuovi interessi. Il confronto, diretto. Le parole avevano un loro peso specifico e un sapore più ricco, più personale. Non si rideva perché qualcuno leggeva una battuta demenziale su Facebook, si rideva perché qualcuno sapeva far ridere. Non si conosceva un aforisma perché era appiccicato sotto l’immagine di un film del cazzo, ma perché avevi letto un libro, avevi interiorizzato un percorso. Chi sapeva, sapeva veramente.
- Sotto casa dell’amichetto si suonava il campanello senza sapere se quell’amichetto c’era oppure no. Se non c’era, si tornava a piedi o in bici ed era pure un quarto d’ora di strada. Adesso, per tutti, sarebbe perdere tempo e adesso, sempre per tutti, credendo di guadagnarlo, lo impoveriscono.
La macchina a quaranticinque giri.
Parcheggiata l'auto, entriamo nel locale che è anche enoteca. Già all’ingresso si notano vari amarcord; da una vecchia affettatrice che non oso immaginare quanto potesse valere, a una vecchissima slitta per la neve, quelle che erano trainate dai cavalli. Sulle pareti i più svariati oggetti antichi e meno antichi; dagli attrezzi per cucina a quelli del contadino, poi pentolami per lo più in rame e tante altre cose tipiche degli anni che furono.
Arriva la banconiera e ci chiede cosa ordinarle.
“Due bicchieri di un buon vino rosso, fai Te, ci fidiamo”.
Sorridendo cortesemente “Arrivano subito”.
“Grazie mille, ci sediamo qui”.
Nel locale non c’è musica e questo mi fa ricordare che in un angolo della sala c’è un vecchio Jukebox.
“Matté … vieni a vedere, ti mostro una cosetta” ... mio fratello lì non c’era mai stato.
“Guarda che figata, e ci sono ancora i titoli delle canzoni!!”.
Insieme contempliamo l’oggetto e spiando tra le fessure del macchinario, cerchiamo di capire se era uno di quelli che andavano già a “CD” oppure con i dischi in vinile. Giocando con i tasti, nella convinzione che il Jukebox fosse lì solo per bellezza, immettiamo una sequenza a caso di cifre e lettere … “senti senti Matté, senti come fanno: STIIIICLINC! CLONKL! ti ricordi?!” (l’onomatopeica è tutta mia), ma i rumori degli altri meccanismi che sono seguiti insieme alle luci sopra i titoli, ci hanno spiazzato…
.. “OOPS” guardo Matteo, lui guarda me, poi dico alla signora “Oddio, abbiamo fatto qualcosa che non si poteva?” … e lei “No no, tranquilli è lì apposta” tranquillizzandoci con un sorriso. Che figata e senza neanche inserire monete. A quel punto, spiando meglio, riusciamo a intravedere il piccolo vinile roteare sulla piastra. Non dico l’effetto che fa il suono. Il volume, giusto giusto di sottofondo, ci ha accompagnati al brindisi. I due calici erano pronti. Il vino, ottimo. Il pezzo era una vecchia canzone di Sting …
… e su quelle note, entrambi in silenzio, eravamo in altri posti...
... il Sole è uno schiaffo d’aria calda dal sapore inconfondibile. L’azzurro è profondo, il verde del mare suona attraverso le onde. La sabbia è un parco giochi dorato e gli adulti sono i “grandi”. Un’estate, una vacanza. Lo stabilimento si chiama, lo ricordo ancora - “Lido Nettuno”. Sono un ragazzino, sul finire dei ’70. Mia cugina poco più piccola, dagli occhi grandi, mi chiama da lontano tutta contenta e comincia a correre che pareva ballare, mi si fa incontro tra i tavolini e con le mani dietro la schiena. Quando più vicina, rallenta in piccoli passetti, passa le mani davanti a sé, tese in due pugni stretti stretti che mi piazza giusto sotto il naso. Mentre saltella sulle punte dei piedi, insieme al suo sorriso dischiude i palmi che più non si può… lì sono due monete luccicanti che brillano insieme i suoi occhi…
… “Me le ha date la mamma, una la scegli tu e una la scelgo io, ok?” …
… “Ok!”
… STIIIICLINC! CLONKL!
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Come sardine in un
Come sardine in un microchip
come rinchiusi in uno schermo cerchiamo la vita in un altrove reso minuscolo e volgare.
come in cerca ci felicita' ci muoviamo, dimentichi di felicita' piu' grandi ed ora, inimmaginabili.
come persi nel persente che ci ha creato, posiamo lo sguado vuoto su di una mano che un giorno ci ha toccato
l'archeologia e' la scienza dei ricordi, di noi relitti iperfetti alla deriva di un dolore non piu' nostro, e' una scienza poco praticata e negletta. Lei si nutre di lentezza e materia, di scontri e riconciliazioni, vive sospesa tra gli sguardi e nelle attese prospera, respira gli orizzonti e i cieli lontani, e si adagia nell'intimita' piu' intima di un segreto ben custodito.
Sappiamio quello che abbiamo perso e non sappiamo il futuro, noi adolescenti fugaci, ma il corpo si dimena nella gabbia e la mente ancora osa uno sguardo.
il sentire
... osare uno sguardo, forse questo ci frega.
c'e' qualcosa di fisicamente
c'e' qualcosa di fisicamente volgare nell'atto di guardare lo schermo di un telefonino, la schiena curva, il corpo piegato, un senso di chiusura verso il mondo, lo sgurado risucchiato nelllo schermo... sembra simile all'atto di leggere un libro ma non lo e'... anche nel senso che tu sembri intendere... lo schermo si appropria del nostro sentire e lo riduce alla sua dimensione ..mentre il libro lo amplifica... Siemon diceva che non c'era nulla di piu' sensuale dell'immagine di una donna che legge un libro, non credo che si possa dire lo stesso di una ragazza assorta su uno smartphone...
Quello che ho scritto nel mio primo intervento, magari poco chiaro, e' lo sviluppo di una riflessione che feci un po' di tempo fa combinata con l'emozione della lettura del tuo bell'articolo.
La scorsa estate mi trovavo a malin head, il punto piu' a nord dell'Irlanda, seduto ai tavoli di un pub in attesa del mio pranzo. Guardavo lo spettacolo dell'oceano aperto di fronte a me, ad est piccole isole rocciose che degradavano nel mare e a nord il grigio blu di un mare che non aveva sponde fino al polo nord. Il mio sguardo si perse nella contemplazione di un orizzonte assolutamente aperto...
E poi mi sono ritornati in mente i telefonini e gli infiniti schermi che ci chiudono lo sguardo...
L'architettura fu il primo.. gli edifici che creano scenari... magari bellissimi... un fondale uno scenario della vita cittadina che limita l'orizzonte e indirizza lo sguardo e lo corregge...
I teatri, sublime invenzione greca... anche loro fondali e scenari di vite eroiche e divine, dove l'immaginare e il vedere si sommano. Schermi piu' piccoli e determinati nel tempo, ma magari piu' potenti , proprio perche' piu' profondi nella loro intima intenzione.
Poi e' gia' storia dei nostri giorni, arriva il cinema, il grande schermo, ma comunque piu' piccolo dei suoi antecedenti, la televisione, il monitor del computer, gli schermi dei laptop, lo schermo dello smartphone... in un processo di riduzione dimensionale e immaginativo del nostro sguardo... che diventa sempre meno capace di guardare l'aperto e sempre piu' prigioniero del labirinto di microchip che lo nutre.
mafagri mi sono spiegato o magari no... fammi sapere.
ciao
eccome
Potente. Credo che vi sia forza sufficiente a spiegarci tutto, soltanto in questa riflessione che hai parafrasato.
A parte l'invidia (mi sia permesso) che ho provato quando hai raccontato dov'eri :) ...
.. hai espresso magnificamente il ciclo che è stato iniziato e non credo possa essere reversibile. Tutt'altro. Un ciclo si deve chiudere.
Come altre volte ho sostenuto, forse la battaglia consiste nel tentare una semina che porti in qualche modo le civiltà future a dimenticarsi di noi, sempre sperando che il giogo orwelliano non duri troppi secoli primo che collassi su se stesso.
Molto interessanti le immagini che hai usato per descrive la riduzione ai minimi termini cui siamo invischiati e che viaggiano parallele tra mondo della rappresentazione e la nostra proiezione nell'irreale...
... è il canto delle Sirene a guidarci.
semina e
grazie calvero... (toh! per caso mi e' uscito il nome giusto, e' un refuso paradossale... ma lo rispetto)...
Come altre volte ho sostenuto, forse la battaglia consiste nel tentare una semina che porti in qualche modo le civiltà future a dimenticarsi di noi, sempre sperando che il giogo orwelliano non duri troppi secoli primo che collassi su se stesso.
Non so, certo il processo sembra irreversibile ragionando sullla massa, la legge dei grandi numeri, e forse questo lo e' sempre stato, ma guardando agli individui magari no... uno ci entra dentro, in questo mondo di putrefazione... ed ecco che ne vuole uscire fuori... ne sente la puzza e pam! si arrovella e lotta per uscirne fuori... magari poi trova mille altre uscite corrotte come il mondo in cui sta, o se e' fortunato o semplicemete onesto con se stesso trova la via "buona"... nos so
Chi sta crescendo in questo tempo no lo invidio certo, l'alternativa che gli si presenta mi sembra sia tra la gabbia e l'alienazione con poco spazio sui bordi... con poco spazio di liberta'... il meccanismo del ricatto sta diventando sempre piu' stringente, o sei dentro o sei fuori... forse e' pure troppo estremo, forse in qualche punto la diga cede... non so.. forse lo spero...
anche il processo che ho delineato sta accellerando in modo pazzesco... il collasso e' vicino.. dietro l'angolo... e quando tutto crolla quello che rimane e' quello che sei, se ancora sei...
In Irlanda c'e' una situazione strana... integrati (mentalmente) ed emarginati (mentalmente) condividono lo stesso scernario, non c'e' una rilevanmte differenza economica ma solo un approccio diverso alle regole del "mondo" (magari non e' la parola giusta ma non me ne viene altra). E gli emarginati sono per la gran parte nativi irlandesi mentre (qui a dublino) gli "integrati sono giovani di tutta europa (ma anche di asia, america e in parte africa) con buoni studi, master e tutto quando, che parcheggiano le proprie vite nei call center di mostri multinazionali.
In mezzo a questo certo c'e' ancora un po di vita, come forse io e te ce la ricordiamo, in fondo l'irlanda e' una nazione arcaica, ed i pub, i piccoli caffe, ed una dimensione umana rurale e cittadina ancora resistono... ma come assediate... quasi rassegnate all'inesorabile... un mondo soppavvivente e pure morente... ma sempre piu' vitasle di quello chee ricordo dell'italia...
la semina necessita un terreno fertile... che per la nostra semina non sono altro che individui ancora vivi e vitali... mi auguro e ti auguro e soprattutto lo desidero per mia figlia, che ancora ce ne siano a sufficenza di questi caratteri...