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Dopo la fine dei lockdown, i tentativi del governo di risistemare l’economia non faranno altro che peggiorare le cose

La foga speculativa che si verifica nel bel mezzo di una recessione non è un fenomeno di recente comparsa. Eppure, la grandezza di questa “pazzia” questa volta potrebbe tranquillamente battere tutti i record registrati dalla Storia. La combinazione di un radicalismo estremo nell’espansione monetaria e uno shock negativo dal lato dell’offerta ha il potenziale per essere estremamente tossica, a tal punto che tutti i processi decisionali degli attori economici possono essere seriamente compromessi secondo delle modalità descritte dalla finanza comportamentale. La bolla speculativa delle azioni dovuta alla pandemia e una nuova domanda per i crediti compromessi o rischiosi ci dà un’illustrazione della grandezza del fenomeno.

Le storielle degli speculatori, che normalmente incontrerebbero delle difficoltà poste dalla razionalità delle persone, sta ora diventando la fissa degli speculatori stessi. Forse, la più fantasiosa di queste storielle è quella secondo cui il programma di acquisti di titoli della FED sia un regalo al settore privato più grande del taglio delle tasse del 2018. Una storiella sorella gemella di questa è riguardante i regali della BCE (Banca Centrale Europea) fatti all’Italia. In effetti, però, quello del “regalo” è un elemento più piccolo di quello che potrebbe sembrare a prima vista, visto che tutti questi regali non sono manna dal cielo quanto piuttosto un trasferimento di ricchezza che impone dei fardelli economici sui ricevitori e sui donanti. Questi programmi distorcono i segnali veicolati dal mercato in modi (soprattutto mediante lo stimolo ad un maggior tasso di “leverage” [il termine “leva finanziaria” o rapporto d’indebitamento è un indicatore utilizzato per misurare l'uso di capitali di terzi a fine di finanziamento,  mentre in finanza aziendale è la scommessa di poter ottenere attraverso reinvestimento di capitali prestati un rendimento maggiore delle condizioni del prestito, ndt]) che peggioreranno la crisi bancaria e del credito cartolare, il cui scoppio è probabile che si verifichi  prima che si verifichi un’espansione economica.

Follie speculative del passato

Due delle bolle speculative che, in passato, si sono verificate durante una recessione sono andate a finire con la distruzione del sistema del credito e del sistema bancario. La prima fu quella verificatasi nell’inverno del 1930: l’indice del Dow Jones salì del 50% dal 29 al 30 aprile e ritornò al 20% di quelli che rappresentarono i livelli precedenti al crollo di Wall Street. Poi c’è stata la bolla del mercato del petrolio (e in generale, nei mercati delle materie prime) della primavera-estate del 2008 (sebbene la recessione cominciò nel novembre 2007), in cui il prezzo del petrolio raggiunse i 145 dollari al barile, seguito da un collasso dello stesso prezzo (che giunse ai 40 dollari al barile) l’anno seguente. La follia speculativa del 1930 finì a causa della progressiva emersione di crediti (specialmente di quelli bancari) in default negli Stati Uniti e anche in Germania; la follia speculativa del 2008 portò alla crisi dei mutui, a sua volta accompagnata dalla crisi del sistema bancario dell’eurozona.

Questa volta è diverso?

Come punto di riferimento, possiamo prendere in considerazione il fatto che le azioni del mercato statunitense hanno raggiunto – alla metà del giugno 2020 – i loro valori massimi dall’inizio della recessione (che, secondo il National Bureau of Economic Research è cominciata a febbraio); e – nonostante questo – un gruppo di azioni conosciute come “pandemic stocks” (ossia azioni legate ad attività i cui profitti sono legati direttamente alla pandemia, come – ad esempio – la vendita al dettaglio online, il cloud computing, i prodotti farmaceutici, o tutti i servizi di videoconferenze online e – in via più generale –  di comunicazione a distanza assieme ai videogiochi; come anche in tutti quei settori in cui il potere di mercato di lungo periodo delle imprese è accresciuto come conseguenza della messa fuori gioco dei loro competitors finanziariamente più deboli) hanno conosciuto una crescita dei loro prezzi molto al di sopra dei livelli ordinari. Il caso empirico più aderente a questa situazione è rappresentato dalla “bolla” dei titoli di guerra durante il periodo della neutralità statunitense nella Prima Guerra Mondiale.

Difatti, similmente a quanto accaduto nel boom dei prezzi dei titoli di guerra, questo “boom” delle “pandemic stocks” si sta realizzando in un contesto di inflazione monetaria. Una differenza chiave, in questo caso, è che l’inflazione non si sta immediatamente traducendo in un aumento dei prezzi dei beni di consumo.

Nel caso della guerra, una maggior competizione derivante da un aumento della spesa del settore militare (per munizioni e per uomini) per andare a caccia di più risorse scarse (soprattutto lavoro) comporta che i prezzi debbano salire immediatamente e in maniera vistosa; al contrario, nel caso di una pandemia vi è una contrazione dei mercati del lavoro principalmente per il fatto che bisogna restare al sicuro in casa, contando anche il fatto che la domanda di lavoro di tutti quei settori che devono approntare le difese contro il COVID-19 è abbastanza modesta.

Nonostante ciò, una crescita dei beni di più alto ordine nello scenario del “dopo-pandemia” può già rappresentare uno stimolo alla domanda di beni reali (incluse le azioni), specialmente da coloro che ottengono o si aspettano di ottenere un flusso di guadagni monopolistici (molti dei quali, elargiti esattamente con le “pandemic stocks”).

I più ottimisti ci dicono che non c’è alcuna ragione di preoccuparci, che non c’è alcuna follia speculativa. I mercati – costoro dicono – stanno rispondendo razionalmente alla notizia che la recessione sia già finita (e il National Bureau of Economic Research riporta che ciò possa avvenire alla fine di maggio 2020). Ci dicono, in sostanza, che si sta preparando il terreno per una forte ripresa economica (dal momento che la minaccia del COVID-19 è stata “ricacciata indietro”). Questo dovrebbe darci, sempre secondo gli ottimisti, un nuovo impulso per proseguire e tirare avanti per tutto l’inverno; dal momento che dalla presente tregua e stasi nascerà sicuramente un periodo di vittoriosa pace, nel senso che verranno trovati i vaccini e cure efficaci.

Quello che oggi può sembrarci una “bolla speculativa” non sarebbe altro – quindi – che un preludio a quello che ha tutto il potenziale per trasformarsi in un “bull market”[ossia in un mercato rialzista, ndt] eterno (tanto per capirci, un’espressione eufemistica e politicamente corretta per indicare l’inflazione del valore degli asset). Esempi di questo fenomeno derivati dalla storia includono l’imponente inflazione degli asset del 1922-1928 o quella del 1962-1966, ambo le quali cominciate nelle prime fasi di ripresa (non sana sin dal principio) da una forte depressione.

Se si sovrappone un enorme shock dell'offerta e un successivo rapido alleggerimento (dei vincoli dell'offerta) rispetto a un declino già determinato endogenamente della spesa delle imprese; il tutto inserito in  un contesto di massiccio accumulo di cattivi investimenti e eccedenze finanziarie durante il lungo periodo precedente dell'inflazione delle attività (diciamo, 2012-2019), cosa fuori alla fine? Molto probabilmente un'espansione economica nella media, con un iniziale rimbalzo dei consumi privati bloccati dai lockdown ma con la spesa delle imprese e il commercio internazionale che rimangono depressi.

Se ci siano o meno delle forti espansioni economiche come quelle degli anni Venti e degli anni Sessanta come conseguenza del mantenimento artificialmente alto del valore delle attività finanziarie, è un fatto che dipenderà in grande misura sulla vittoria sul COVID-19. Tuttavia, ci sarà comunque una vittoria per il capitalismo “creativo”. La crescente carenza di capitale (dovuta all'obsolescenza di gran parte del capitale accumulato durante il ciclo precedente) dovrebbe andare di pari passo con alti tassi di rendimento di fronte alle nuove opportunità di investimento.

La pandemia non fa altro che mettere a nudo le bolle

Quando la pandemia sarà finita, ciò non comporterà solo un totale reset dei valori dei crediti e dei capitali ai loro valori precedenti alla pandemia e questo perché già allora stavamo assistendo alla fine (quasi il tramonto) di un periodo di una inflazione del valore degli asset che pensavamo potesse essere virtualmente illimitata. Tutto l’ammontare dei cattivi investimenti che stanno per essere messi a nudo a causa della pandemia – non importa che essi si trovino localizzati nelle azioni del petrolio, in quelle delle compagnie aeree o dell’industria delle auto; oppure – ancora – nelle supply chains internazionali, nei mercati cinesi o in quelli dei paesi in via di sviluppo, nei settori dell’Export europeo o nel mercato immobiliare – è sicuramente in grado di provocare una enorme svalutazione dei valori delle attività rispetto ai livelli precedenti; una svalutazione – questa – che è largamente legata a quella dei crediti cartolari.

I più ottimisti si ostinano a ribattere che questa volta sarà diversa, in ragione delle dimensioni dei salvataggi messi in atto dalla FED e dallo Zio Sam per tenere a galla “il sistema nel suo complesso”. Ma in questa asserzione, molto è finzione.

Certamente la FED (legalmente coperta dal CARES Act – ossia il Coronavirus Aid, Relief, and Economic Security Act) può stampare e scrivere a credito verso il Tesoro statunitense 500 bilioni di dollari per compensare le di questo perdite aggregate sul credito cartolare che essa compra esponendosi nei programmi di acquisto degli assets; tuttavia, tale compensazione copre solo una parte dei crediti cartolari che devono essere acquistati, una parte – questa – che è solo una minima parte sul totale dei crediti ad alto rischio nell’economia tanto statunitense e, ancor più, globale.

Mentre si impegna in questi programmi, la FED è essenzialmente un price-taker (e non un price-maker), anche se la convinzione che la Fed sia lì potrebbe alimentare il prezzo dei crediti cartolari proprio nel mezzo della frenesia. In caso di fallimento, la Fed non rinuncerà cortesemente alle sue richieste a favore di tutti gli altri creditori. Né verrà automaticamente trasferito su tutti i proventi dei crediti cartolari insieme agli interessi nel suo portafoglio in nuovi titoli dello stesso emittente.

Torniamo agli esempi della Storia: se sentiamo una leggera eco della crisi mentre l'attuale episodio di frenesia speculativa nella recessione svanisce, questa vocina potrebbe benissimo provenire dalla bocca di un grande crollo del ciclo del credito. Ciò potrebbe probabilmente iniziare nei mercati emergenti (compresa la Cina) o in Europa (si pensi all'Italia). L'edificio dei sistemi di protezione del mercato creditizio della Fed e del Tesoro di Mnuchin si spezzerebbe all'impatto.

 

Traduzione per il Portico Dipinto a cura di Giordano Felici. Articolo originale di Brendan Brown.