Skip to main content

Lo strano caso di un grande monopolista che avrebbe urgenza di ammettere il suo fallimento e di riorganizzarsi su basi radicalme

La maggior parte dei cittadini degli Stati Uniti non sospetta minimamente dell’esistenza all’interno del paese di un enorme conglomerato produttivo che arriva a fatturare addirittura migliaia di miliardi di dollari. Questa entità economica eroga i più svariati servizi di tipo assicurativo, che vanno dai finanziamenti al sistema sanitario, all’integrazione dei redditi dei portatori di invalidità, alle indennità di infortunio per i lavoratori per finire alle garanzie sui trattamenti pensionistici. I ricavi a copertura delle attività provengono dalla raccolta premi dei clienti e poiché il regime concorrenziale in cui opera è molto limitato o addirittura, in alcuni casi, assente, tale azienda è di fatto un monopolista che controlla agevolmente i mercati sottostanti. Ma questa non è l’unica dimensione delle sue attività commerciali.

Il conglomerato in questione è anche operativo nel settore della sicurezza nazionale, sia per quanto concerne la difesa da minacce interne che quelle di tipo internazionale. Inoltre, si trastulla anche nella salvaguardia e nella pulizia dell’ambiente, nei servizi all’istruzione, nel settore bancario e in tanti altri comparti dell’attività economica. Si potrebbe ragionevolmente pensare che non sia possibile fare bene tutte queste cose nello steso tempo, e il dubbio appare più che lecito. La maggior parte della base clienti infatti tende a sperimentare un servizio di qualità piuttosto scadente, ma non ci sono altre scelte, in un regime di monopolio. Per rafforzare la credibilità del marchio, l’azienda in argomento cerca di veicolare sul mercato una rassicurante immagine di fornitore disinteressato di ottimi servizi, dotato di una solida base finanziaria, a garanzia delle prestazioni da erogare.

Tuttavia, l’andamento dei fondamentali economici sta mettendo sotto pressione la  presunta solidità della nostra azienda. Le entrate contabilizzate nell'esercizio 2019 hanno raggiunto 3,5 trilioni di $, a fronte di uscite per circa 4,4 trilioni. Lo sbilancio negativo di 900 miliardi di $ è stato coperto utilizzando le linee di credito messe a disposizione dal sistema bancario. Le banche, che in passato non hanno mostrato molta preoccupazione per l’affidabilità creditizia del nostro conglomerato, iniziano ora a mostrare qualche segnale di nervosismo.

La società non realizza utili dal 2001, anno in cui fece registrare un risultato positivo di soli 128 miliardi di dollari. Il totale dell’utilizzo delle facilitazioni creditizie accordate dal sistema è passato dai quasi 6 trilioni di $ del 2001 agli attuali 24 trilioni di $, attraverso un processo lineare di perdite annuali concatenate. Il rapporto debt/income è passato dal 55% (2001) all’attuale oltre 106%. La maggior parte delle comuni aziende non verrebbero nemmeno prese in considerazione se provassero con tali numeri a chiedere un aumento delle facilitazioni bancarie. Ma in qualche strana maniera, forse in forza di un rito magico, la nostra azienda è stata in grado di continuare a impegnare linee di credito sempre più grandi. 

Fino a ora il conglomerato è sempre stato in grado di rassicurare i suoi finanziatori, attraverso una comunicazione fatta di ottimistiche proiezioni circa le entrate future, che mai sono state messe in discussione. Ma a seguito della brutale caduta delle attività economiche dovuta al coronavirus, è plausibile che si faccia molta più fatica ad utilizzare previsioni di entrate prospettiche eccessivamente sganciate dalla realtà. I ricavi potrebbero subire un dimezzamento mentre le spese si dilateranno sensibilmente a causa dell’aumento delle prestazioni sanitarie, dei sussidi di invalidità e di quelli di disoccupazione, che costituiscono il grosso degli impegni a breve. Con buona probabilità saranno necessarie linee di credito aggiuntive per almeno altri $ 4 trilioni quest'anno, e nel peggiore degli scenari addirittura anche $ 6 trilioni o più.

A peggiorare le cose, l'impresa presenta inoltre passività fuori bilancio che ovviamente non impattano nella determinazione contabile del patrimonio netto: una chiara violazione dei più elementari principi contabili.

Il valore di questo debito implicito ammonta in valore attuale ad oltre 122 trilioni di dollari, connesso in gran parte agli impegni riguardanti assistenza sanitaria, invalidità e ammortizzatori sociali vari. Come hanno potuto superare gli obblighi regolamentari senza fare alcun riferimento nelle note integrative a obbligazioni che hanno una incidenza così significativa sulla consistenza dei loro bilanci? In realtà non potevano.

Quali sarebbero, in condizioni normali, le probabilità che il sistema bancario consenta di espandere, per l’ennesima volta, il livello del loro indebitamento? Quanti istituti di credito presterebbero ulteriore denaro a un'azienda che non realizza utili dal 2001? Che ha un rapporto debt/income di oltre il 100 percento? Probabilità zero.  L'azienda in realtà sarebbe costretta a presentare istanza di fallimento o semplicemente a chiudere i battenti.

A peggiorare le cose, il modello di “governance” dell’azienda è formato da un Presidente, un Vicepresidente e un Consiglio di Amministrazione composto da ben 535 membri.

Ma nessuno di loro possiede “expertise” nelle varie attività svolte dalla società, essendo tutti i membri del C.d.A. eletti attraverso un meccanismo di selezione basato su per lo più su metriche di popolarità, piuttosto che orientato alla ricerca delle competenze. Il C.d.A. è teatro quotidiano di accesi dibattiti, finalizzati al raggiungimento di una maggiore influenza all’interno dell’organismo, con un totale disinteresse verso lo svolgimento delle operazioni esiziali per la sopravvivenza dell’azienda.

In generale, chi non vorrebbe assistere allo scioglimento di un tale monopolio? Il nostro governo federale potrebbe mai permettere la sopravvivenza di una compagine sociale come quella descritta finora? Avrebbe certamente imposto il suo scioglimento e la vendita forzata delle singole componenti del suo business o, in estrema ratio, la sua chiusura definitiva. 

Ma si dà il caso che il "conglomerato" che ho descritto fino adesso è proprio il governo federale.

I dati di bilancio sopra riportati corrispondono a quelli effettivamente espressi dal nostro governo federale nell'esercizio fiscale 2019. Sono pessimi, ma stanno per peggiorare di parecchio. Non è irragionevole supporre che il Governo Federale assisterà un calo delle entrate fiscali di almeno il 20 percento nell'esercizio 2020 nella migliore delle ipotesi, che potrebbe arrivare al 50% in quella più avversa. Quando le persone non lavorano, non ci sono redditi da tassare. Nel contempo, il Governo Federale ha incrementato in maniera significativa le sue spese. Eravamo già sulla buona strada per spendere una cifra record di 5 trilioni di $ quest'anno, in assenza di coronavirus. Il Coronavirus Aid, Relief and Economic Security (CARES) Act avrà un costo di copertura di circa 2 trilioni di $ e potrebbe quest'anno far lievitare il debito federali di altri 4 trilioni di $ o più. Ciò farebbe raggiungere al budget di spesa per il 2020 l’incredibile cifra di 11 trilioni di $, aumentando drammaticamente il nostro già sovraccarico debito. La seconda versione del CARES Act avrà poi l’effetto finale di aggravare ulteriormente la situazione di un debito già di per sé fuori controllo.

Il nostro debito nazionale ammontava a circa 24 trilioni di $ prima dell’epidemia di coronavirus. Ora, incredibilmente, potrebbe superare la soglia di 30 trilioni di $ nell’arco di sei mesi. Se nel 2020 le entrate federali subissero una contrazione solamente del 20 percento, scenderebbero al livello nominale di 2,8 trilioni di $, a fronte di uscite per oltre 7 trilioni di $ (escludendo dal perimetro l’ulteriore aggravio per i prestiti alle imprese determinato dall’approvazione del CARES Act). Automaticamente tale deficit aggiuntivo causerebbe un aumento di oltre $ 4 trilioni del nostro debito nazionale, portandolo sopra i 28 trilioni di $. Se il PIL del 2019, attestato a quasi $ 22 trilioni, dovesse scendere anche solo del 20 percento, il nostro rapporto Debito/PIL supererebbe di slancio il livello del 150 percento! Con buona approssimazione sarà molto peggio di quello di settembre.

Attualmente i tassi di interesse sono bassi, quasi prossimi allo zero. La ragione di ciò risiede nel controllo operato dal governo federale attraverso la Federal Reserve Bank. I funzionari federali desiderano tassi di interesse inferiori ai tassi naturali, perché credono che stimoleranno l'economia. Tassi bassi riducono senza dubbio il costo del servizio del debito pubblico. Tuttavia, ad un certo punto i tassi aumenteranno, e il costo del nostro governo super-indebitato diventerà insostenibile. Se il tasso di interesse medio sul totale dello stock del debito pubblico fosse solo del 3 percento, il volume del costo annuale supererebbe da solo il valore di 1 trilione di $. Questo è di certo denaro che non potrà andare a sfamare i poveri, a fornire cure mediche o soddisfare gli standard ambientali richiesti dagli accordi sul clima.

Nessuno presterebbe ulteriore denaro a un'impresa con fondamentali economici così deprimenti. In che modo il governo fino ad ora è riuscito a farla franca? Qual è la magia, cui abbiamo accennato prima, che permette la continuazione di questo modus operandi? È la loro capacità di stampare denaro. I funzionari federali sono di fatto dei banchieri.

Il governo federale, attraverso i suoi "partner" presso la banca centrale, sta facendo stampare moneta per "aiutare" l'economia post-coronavirus. Li faranno passare come semplici prestiti, ma questa è solo una versione edulcorata della realtà. Nel mondo reale, i prestiti possono provenire solo dall’accumulo risparmio, ma né la banca centrale né il governo stesso possiedono risparmi, come dimostrano le dinamiche dei loro deficit strutturali e il livello imbarazzante raggiunto dal debito federale. Persino le trattenute sui sussidi della previdenza sociale (assimilabili a premi) non sono mai stati accantonati: le somme in eccesso non utilizzate per effettuare i pagamenti delle prestazioni di sicurezza sociale sono state infatti destinate ad altre voci di spesa. Se il governo non possiede risparmio ma dovrà fornire a mo’ di stimolo sussidi e trilioni di prestiti alle imprese, questo denaro dovrà essere creato in grandissima parte dal nulla.

Il governo è nel guado, stretto tra una parete rocciosa e un ambiente inospitale e inesplorato. Se non si inietta sufficiente liquidità nel circuito economico, lo scenario plausibile sarà caratterizzato da elevato livello di fallimenti aziendali e di conseguenza la disoccupazione salirà alle stelle, fino a raggiungere grandezze record. Tuttavia, è estremamente verosimile che una buona parte delle imprese andrebbe in bancarotta comunque: la banca centrale non può stampare abbastanza denaro per mantenere a galla tutte le attività e garantire alti livelli di occupazione.

Le recessioni e le depressioni sono grandi occasioni per ristrutturare e ricostruire il tessuto economico. Alle aziende che hanno formulato previsioni sbagliate rispetto ai loro mercati di riferimento e che si sono ingrandite facendo ricorso a prestiti a tassi di interesse artificialmente bassi dovrebbe essere data la possibilità di fallire in maniera ordinata. Si assiste a tale processo anche quando la congiuntura economica è favorevole. A maggior ragione, quando il ciclo economico non è favorevole, è necessario ripulire ulteriormente il tessuto economico per dare la possibilità alle imprese più efficienti e forti di migliorare i loro fondamentali. Il vecchio motto molto diffuso nel mondo del commercio:  "Puoi pagarmi ora, oppure puoi pagarmi più tardi(ma molto di più)" è perfettamente in grado di spiegare metaforicamente la situazione: possiamo sopportare un grande dolore per un periodo di tempo relativamente breve oppure ritardare il disagio immediato al prezzo di una sofferenza futura ancora peggiore, che però avrà la caratteristica di durare molto più a lungo.

Il governo federale ha davanti a sè alcune scelte difficili da prendere. Può optare per una strategia politica, facendo finta di sapere come risolvere i problemi a spese di altre persone (in questo caso la ricchezza dei nostri figli e nipoti), assicurandosi nel frattempo consenso sufficiente per vincere la prossima tornata elettorale. Oppure può fare la cosa più sensata: ammettere con onestà intellettuale di non sapere perfettamente come uscire da questo disastro, consentendo però al settore privato di poter lavorare, produrre e commerciare liberamente, ricetta questa che è sempre stata nel tempo la vera chiave per la crescita e la prosperità. 

Rimane purtroppo la constatazione che lo stato federale è tecnicamente in bancarotta. Se, in un esercizio teorico, le istituzioni politiche fossero state costrette a competere in un'economia reale, sarebbero state di sicuro costrette a ristrutturare oppure a portare i loro libri in tribunale, molto tempo fa.

 

Traduzione per il Portico Dipinto a cura di Marco Pitoni. Articolo originale di J. Kyle deVries.