Girava uno scherzetto tempo fa, una di quelle cose che servono a fare i burloni e che non hanno la pretesa di far ridere. Lo scherzetto prevede che tu, mettendo il dito indice davanti a colui che vuoi canzonare, proprio davanti al suo naso, affermi semplicemente: - dimmi cosa vedi. La cosa è talmente ridicola nella sua pretesa che per farti contento tutti staranno al gioco e diranno: - un dito. A quel punto guardi la vittima, guardi gli altri amici lì vicino e con aria superiore, alla "James Bond", concludi: - Allora mi sono nascosto bene!
Fu proprio questo scherzetto che m'insegnò ad affrontare la vita da una nuova prospettiva. Ci sono cose così sciocche che anche se si analizzassero senza preconcetti, comunque occorrerebbe un bel lavoro per trovarci altro di profondo. Poi ci sono cose invece drammatiche e buie, prive di luce; così profonde nelle loro implicazioni che lo sconforto che generano, ci parla di un labirinto cui non si concepisce l'architettura.
Tra le vicende e le cose che mi hanno cambiato la vita, ce ne sono due interessanti da mettere vicino. Una di queste è stupida, che i più rimuoverebbero il giorno dopo dai propri ricordi, ancor di più se la stessa, raccontandola, ti farebbe apparire come un pirla (l'orgoglio, questo mistero). L'altra non lo è. Ad accomunare queste due vicende vi sono a sua volta due cose: - 1) la velocità con cui mi hanno colpito e 2) l'influenza che hanno avuto su di me.
Buona la prima
Avevo poco più di vent'anni con l'argento vivo addosso e la voglia di strafare. Andai a trovare un amico (che era qualche anno che non vedevo poiché ero partito per il mitico Nord), ero a casa sua, con i suoi genitori, suo nipote, le sorelle e i relativi morosi; più o meno al centro dell'attenzione a raccontare delle nuove esperienze, lì, in un posto dove la realtà rurale era ancora possibile toccarla con mano. Raccontavo di cose anche inaudite per loro, e questo faceva sì che potevo pavoneggiarmi giusto quel pelo per sentirmi "uomo tornato da chi sa quale guerra" e rendermi figo. Se non potevo fare lo spavaldo con i genitori (persone che avevano curvato la schiena sulla terra e tirato su figli con enormi sacrifici) con tutti gli altri potevo cantarla meglio. Tra aneddoti e risate, ecco che rivedo Matteo, il nipotino che adesso aveva più di sei anni e che me lo ricordavo le ultime volte quando aveva imparato da poco a camminare. Ancora sull'eco di risate e chiacchere di sottofondo, richiamo l'attenzione degli altri e mi muovo curvandomi verso il piccolo, che aveva un sorrisone bellissimo; allungo il braccio e metto il mio dito indice davanti il suo nasino. Gli altri si fermano per gustarsi la scenetta.
Gli dico giocosamente: - Matteo, guarda, dimmi, cosa vedi?
Guardandomi negli occhi: - uno stronzo.
A rendere ancora più efficace l'uscita, fu che lui non pronunciava bene la "z" quindi l'epiteto si mostrò migliore nella sua genuina e indiscutibile forza, nella sua innocenza. Le risate scaturite ed esplose fragorose, naturalmente, non avevano quel sapore che avevo pregustato; a denti stretti risi anch’io, ma per quanto di cuore potessi ridere, lo "schiaffo" che presi scavalcò all'istante qualsiasi tipo di svicolata.
Come si dice? ... servì di lezione "piglia incarta e porta a casa", piano iniziai a vedere il cartello all'orizzonte e l'indicazione, un bivio personalissimo che solo io potevo prendere; che quella era un'uscita segnalata da varie vicessitudini, sempre più vicine l'una all'altra, che deviava dalla strada principale che stavo percorrendo; bisognava rallentare, scalare la marcia e cercare quella ottimale per la situazione; capii che il significato di quella figuraccia era ben oltre la figura stessa e che in qualche modo tutto ciò potevo farlo trascendere, oppure negarlo. Cioè relegarlo in un aneddoto di passaggio, in qualcosa "per far ridere" (tuttora lo racconto e ci sta alla grande); oppure rimuoverlo (orgoglio docet). Decisi semplicemente di farlo mio e basta e da lì, piano, compresi che ogni approccio deve essere nudo, spoglio, scevro da ideali e preso dalla misura di ciò che so, e non da ciò che gli altri credo sappiano. Dovevo abbassare la cresta e allo stesso modo non temere di liberare le mie idee. Perché in realtà dietro ogni cazzata che facciamo, c'è un'ideale troppo pesante per noi e che richiede un allenamento migliore per caricarcelo sulla schiena.
Senza luce
Pochi anni dopo mi trovavo in una realtà diversa. Sempre ben sotto i trent'anni. Avevo una morosa fissa, in gergo "una fidanzata" e iniziavano a manifestarsi prepotenti le prime intolleranze alle ipocrisie di un lavoro tanto spersonalizzante, quanto invadente ben oltre la cosiddetta timbrata del cartellino. Le passioni invece, croce e delizia, fungevano sia da valvola di sfogo, dandomi la possibilità di esprimermi, quindi di trovarmi e purtroppo, anche da alibi. Sulle medesime erano più le volte che poggiavo troppo comodamente le mie potenzialità, il mio culo (come si suol dire) che non prenderle invece, farle mie e far sì che mi potessero condurre forse lì, dove il mio karma indicava la strada. Molte brutture e soprusi finissimi, taglienti, scandivano e mettevano alla prova la mia libertà di essere. Fortuna che l'amore e uno sguardo maggiormente disincantato, anche se in maniera inconsapevole, facevano da barriera, da "anticorpo" e - in qualche modo - mi guidavano. La paura però, quella di contrastare qualcosa di sconosciuto nei meccanismi di un sistema che allora vedevo come un mostro senza testa, era una zavorra non da poco. Non ne ero conscio pienamente, ma lo percepivo.
È notte. Piena. Arriva il fratello della mia ragazza: - Luca è morto. Luca era un ragazzo giovanissimo, un bel ragazzo, sano, non lo conoscevo profondamente, ma essendo amico con la "A" maiuscola del fratello della mia ragazza, era comunque di famiglia. Prendiamo la macchina e partiamo, ancora non avevo capito se mi ero svegliato del tutto, che eccomi ero sulla statale deserta, verso il luogo dove avevano sistemato la salma. Avevo i pensieri in disordine, insieme alle emozioni in disordine, pure quelle. Non capivo. Luca si trovava con un altro amico quella sera, si era addormentato, era in macchina, lato passeggero, davanti. Aveva anche le cinture indossate. Tornavano a casa. La macchina sbanda, roba da poco, potremmo osare dire, ma il tanto che basta a che il suo collo faccia un movimento troppo repentino perché sia gestito convenientemente dalla muscolatura rilassata che Luca non c'è più.
Come in trance, entro nella saletta, che da quando ero stato svegliato un’ora prima, era come fossero passati dieci o venti secondi, non di più. Decido di volerlo vedere. Non ho dubbi su questo. Era lì s'un tavolo di marmo e come si dice, pareva dormire. Nulla di più. Uscii poco dopo, avendo nella mia memoria la figura del padre, in piedi, al suo fianco, che lo guardava, in silenzio. Cambiò la mia vita. In un momento.
Da allora non ci fu questione che se sentivo giusta, potevano fermarmi dal difenderla. Potevano solo tentare e tentare, e tentare a ancora. Ma non potevano fermarmi. Capii il non-senso di molte, tante, troppe cose. Troppe. E le ridimensionai. Capii non tanto il valore delle cose importanti che, per quelle, forse non basta una vita intera, bensì il disvalore di quelle ritenute stupidamente necessarie. Sacre. Intoccabili. No. Non lo erano. Ora lo sapevo e non era più la mia strada.
La ruota
L'anno scorso degli amici si trovavano a passeggiare per il nostro paesello. Con loro c'è una bambina meravigliosa, ha cinque anni. Figlia di amici e cui tengo tantissimo. Riesco a fare il babysitter per lei, viste le incombenze a volte inaspettate cui i genitori devo adempiere. A passeggiare si trova lei, una mia amica e il padre della bambina. A un certo punto la bambina, nel pieno del suo periodo dei perché, osserva uno strano cartello all'inizio di una via, allora guarda la mia amica e fa:
- Anna ma cos'è quel cartello?
- Beh, vedi stellina, mmh, come posso dirti (?) ... ecco, quel cartello significa che quando il tuo papà arriva con la sua macchina e la parcheggia proprio lì, significa che è stato distratto e se viene il vigile, allora lo rimprovera e gli fa una multa, perché in quel posto non si può lasciare la macchina, altrimenti le altre macchine non riescono a passare sulla strada, che è stretta.
Allora la piccola, sempre dando la manina ad Anna, e stretto il gelato dall'altra:
- No, si dice divieto di sosta.
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