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Saggio sulla crisi economica in corso

di Marco Bollettino
Non è mai semplice scrivere un saggio di economia e le difficoltà aumentano considerevolmente quando non si condivide affatto la tesi espressa dal titolo e si sa che l’intero testo dovrà essere dedicato al confutarla.
Ci si domanda, infatti, se la crisi «non tolga credibilità al mercato, pilastro del liberalismo».

Ma questa crisi, come vedremo nel capitolo dedicato alla teoria austriaca del ciclo economico, non è altro che la reazione del mercato alle distorsioni prodotte dall’interventismo statale ed al  boom insostenibile che queste avevano prodotto.
Un esempio può rendere meglio l’idea.

Immaginiamo di possedere un criceto e di farlo correre all’interno di una ruota girevole. Dopo un certo periodo di tempo, quando inizia a rallentare, decidiamo di stimolare il suo metabolismo iniettandogli dei farmaci (ad esempio delle anfetamine).
Quello che osserveremo è che il criceto riprende a correre, più velocemente di prima, almeno sino a quando, esausto, non si ferma nuovamente per riposare.

Il fatto che il criceto si fermi per riprendere fiato toglie forse credibilità al suo metabolismo? No di certo.
Il rischio è invece che, proseguendo con le iniezioni e dovendo ogni volta aumentare le dosi per ottenere il risultato voluto, si rovini definitivamente la salute del criceto, provocandone la morte.
 
La seconda questione è se la crisi «sia il prodotto del liberismo oppure della mancanza di regole, che Hayek riteneva indispensabili per una corretta economia - ma Hayek avrebbe detto ordine - di mercato»..
Anche su questa affermazione non posso che trovarmi in disaccordo. Quali sono le “politiche liberiste” che avrebbero guidato l’economia negli scorsi anni? Parafrasando una recente intervista  di Antonio Martino possiamo sostenere che l’Amministrazione Bush, pilotata dal movimento neoconservatore,  si possa definire colbertista, corporativista, fascista o anche per certi versi socialista ma certamente non liberale né tanto meno liberista.

La questione delle regole verrà trattata nei dettagli nei capitoli a seguire ma mi preme sottolineare una cosa: se un sistema di fondo è profondamente corrotto ed instabile come quello attuale non sarà la regolamentazione a renderlo “un buon sistema”. Entrambi i processi di regolamentazione e deregolamentazione possono infatti aprire degli spiragli – non a caso vi è il detto “fatta la legge, scovato l’inganno” – che permettono comportamenti di azzardo morale e truffa.
Tornando al criceto dell’esempio, non è regolamentando le iniezioni di anfetamina che si ottiene un criceto sano che corre felice sulla sua ruota ma eliminandole e lasciando che il criceto rallenti il ritmo  e si riposi quando è stanco.

E’ del Capitalismo Laissez-faire la responsabilità della crisi economica?

Uno dei miti che è cresciuto man mano che la crisi finanziaria diventava più manifesta è che questa sia stata il risultato delle politiche liberiste e del capitalismo laissez-faire.  A sostenere questa linea di pensiero sono in tanti, dal presidente francese Sarkozy , che ha  annunciato «la fine del Capitalismo Laissez-faire», all’economista Roubini , sino allo stesso New York Times , che non manca  di ricordare come gli Stati Uniti abbiano sempre avuto una mentalità laissez-faire e che negli ultimi 30 anni questo si sia tradotto in una politica di deregulation sempre più spinta.

L’idea di fondo è molto semplice: secondo questa interpretazione il capitalismo laissez-faire affermerebbe che i mercati funzionino meglio quando sono lasciati da soli, senza che lo Stato si preoccupi di regolamentarli, in quanto la regolamentazione avviene al loro interno in maniera automatica ed efficiente.  In sostanza il mercato (e si intende in particolare quello finanziario) sa cosa è meglio per lui.
 
A questa visione gli economisti tornati in voga in questi ultimi mesi propongono  un’interpretazione alternativa e totalmente opposta. Il mercato non è affatto guidato da una mano invisibile  che trasforma le azioni egoistiche degli individui in benessere collettivo ma anzi, se viene lasciato operare senza adeguata regolamentazione, si trasforma in una giungla dove vige la legge del più forte, il principio della libera concorrenza viene meno e trionfano i monopoli.

Insomma il mercato, lasciato a sé stesso, tende a fallire.

Questa crisi, dopotutto, non è proprio la dimostrazione che le politiche liberiste e la deregulation attuate dell’amministrazione Bush  hanno prodotto una situazione di crescita insostenibile sfociata poi in una terribile crisi finanziaria?

Per rispondere a questa domanda dobbiamo in primo luogo definire che cosa è davvero il Capitalismo laissez-faire e quindi stabilire se politica economica seguita negli ultimi anni si rifaceva proprio a questo modello. Siamo infatti sicuri che l’amministrazione Bush, guidata dal movimento neoconservatore, sia stata nei fatti e non solo a parole, paladina del libero mercato?

Che cos’è il Capitalismo Laissez-faire?

In Human Action L’economista liberale Ludwig Von Mises (2007, p.730), definisce proprio che cosa sia il Capitalismo Laissez-faire, evidenziando come le critiche che vengono poste a questa linea politica siano in realtà basate su di una cattiva interpretazione del significato di laissez-faire.
 
«Nel diciottesimo secolo in Francia, il detto laissez-faire, laissez passer era la formula in cui alcuni dei campioni della causa della libertà avevano riassunto il loro programma. Il loro scopo era stabilire una società basata sul mercato libero da interventi esterni (unhampered market society). Al fine di raggiungere questo scopo, essi patrocinavano l’abolizione di tutte quelle leggi che impedivano alle persone più industriose ed efficienti di far meglio dei loro concorrenti meno industriosi e meno efficienti e che determinavano una restrizione nella mobilità dei beni e delle persone. Questo era il pensiero che quel detto voleva sintetizzare. »

L’economista austriaco nota però che nella società contemporanea questa formula è diventata sinonimo di «depravazione e di estrema ignoranza». Questo perché gli interventisti hanno voluto interpretare una delle affermazioni del Capitalismo laissez-faire, ovvero che il mercato si regola «in modo automatico», non come una metafora utilizzata per descrivere i complicati processi di mercato ma come un’affermazione di principio e su questo hanno poi basato la loro critica.

Se le cose stessero così, continua Mises,

«è ovvio che fare puro affidamento su dei processi automatici sia estremamente stupido. Nessun uomo ragionevole potrebbe raccomandare seriamente di non far nulla e di lasciare che tutto continui senza che nessuno intervenga in modo attivo con la sua azione (purposive action). Un piano, per il fatto stesso di essere il prodotto di un’azione cosciente  (conscious action), è incomparabilmente superiore all’assenza di piani.»

L’economista di Vienna fa però notare che il termine ‘automatico’ in realtà significa «non soggetto al controllo della volontà, attuato in modo inconsapevole» e che quindi l’alternativa non è tra un rigido automatismo ed una cosciente pianificazione ma piuttosto tra «l’azione autonoma di ogni individuo contro l’azione esclusiva del governo, tra la libertà e l’onnipotenza del governo».

Conclude Mises: «Laissez-faire non significa: lasciamo che operino forze meccaniche senza vita. Significa invece: lasciamo che i singoli individui scelgano come vogliono cooperare all’interno della divisione sociale del lavoro; lasciamo che sia il consumatore a determinare che cosa gli imprenditori dovranno produrre».

Capitalismo laissez-faire e neoliberismo

Su cosa sia il neoliberismo si è scritto e discusso molto ma tendenzialmente questo è un termine che viene utilizzato, con tono dispregiativo, per definire le politiche economiche degli Stati Uniti dall’elezione alla presidenza di Ronald Reagan in poi.

I cardini dell’ideologia neoliberista sarebbero:

- Onnipotenza del Mercato: le imprese e le corporation devono essere liberate da ogni controllo governativo, eliminando quanto più possibile i diritti sindacali
 
- Taglio delle spese sociali dello Stato: ridurre le spese statali nei campi dell’educazione, della sanità ed in tutto quello che costituisce la “rete di salvataggio” per i più poveri.

- Deregulation: eliminare tutte le regole che possono diminuire i profitti delle imprese, ad esempio prescrivendo norme di sicurezza per i lavoratori.

- Privatizzazioni: vendere tutte le aziende di proprietà pubblica ai privati.

- Globalizzazione: estendere a tutto il mondo le politiche neoliberiste e la libera circolazione dei capitali attraverso istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale.

Leggendo attentamente questi punti è molto facile riconoscervi le politiche economiche degli ultimi anni ma se tuttavia le confrontiamo con quanto scritto da Mises non possiamo non notare come non vi sia affatto corrispondenza tra queste linee di condotta ed il Capitalismo Laissez-faire.

Questa ideologia che viene chiamata neoliberismo non chiede che il governo non intervenga ma anzi chiede che gli interventi ci siano ed abbiano una direzione ben precisa ovvero favorire alcune grandi imprese, le corporation, garantendo loro dei privilegi attraverso il rilassamento di alcune regole, sconti fiscali ed il conferimento della proprietà di ex monopoli pubblici.

La definizione giusta sarebbe neocorporativismo, non neoliberismo!
 

Aveva ragione Marx?

Perché allora la maggioranza delle persone e dei media ritiene vera l’affermazione per cui le politiche economiche degli ultimi 30 anni siano l’applicazione delle teorie del capitalismo laissez-faire?

La risposta, secondo George Reisman (2009) è da ricercare nel fatto che il sistema educativo ed i media stessi accettano implicitamente, pur senza essere marxisti, «le idee di Marx riguardo alla natura ed al funzionamento del capitalismo laissez faire»

Scrive Reisman che

«[i media ed il sistema educativo] accettano la dottrina marxista secondo cui, in assenza di intervento governativo, l'interesse personale, il motivo del profitto – “l'ingordigia senza briglie” – degli uomini d'affari e dei capitalisti servirebbero a portare i salari al livello di minima sussistenza estendendo al contempo le ore di lavoro fino il massimo umanamente sopportabile. [..] Continuano argomentando che soltanto l'intervento governativo sotto forma di leggi pro-sindacati e salario minimo, leggi sull'orario massimo, proibizione legale del lavoro infantile e di mandati di governo riguardo alle condizioni di lavoro, abbia aiutato a migliorare la parte del salariato. »

Quante volte abbiamo sentito, negli ultimi mesi, che la crisi è stata causata dalla “logica del profitto”, dall’avidità, dal fatto che lo Stato ha lasciato che fossero le corporation a “fare la politica” e si è chiamato tutto questo “Capitalismo laissez-faire”?
 
Continua Reisman.

«Nella loro visione, il capitalismo laissez faire e la libertà economica sono una formula per l'ingiustizia e il caos, mentre il governo è la voce e l'agente della giustizia e della razionalità negli affari economici. Così saldamente sono attaccati a questa credenza, che quando vedono ciò che pensano essere la prova dell'ingiustizia e del caos su grande scala nel sistema economico, come nell'attuale crisi finanziaria, presumono automaticamente che sia il risultato del perseguimento dell'interesse personale e della libertà economica che permette di perseguirlo. [..] Il loro timore ed odio della libertà economica e del capitalismo laissez faire e la loro necessità di poterli denunciare come cause di tutto il male economico, sono così grandi che fingono, per loro stessi e per il loro pubblico, che esistano nel mondo di oggi, in cui è chiaro però  che non esistono neppure lontanamente. Proclamando che il laissez faire esiste e che è responsabile del problema, possono rivolgere l'intera forza del loro odio per la vera libertà economica ed il vero capitalismo laissez faire contro ogni frammento di libertà economica che riesca in qualche modo ad esistere, e che decidono di designare come bersaglio.»

Ma come ha spiegato Mises, questa visione del Capitalismo laissez-faire è completamente sbagliata e fuorviante e le politiche economiche degli ultimi anni, che hanno indubbiamente derubato una grossa parte della popolazione per arricchire un ristretto numero di interessi corporativi, non hanno nulla a che vedere con il vero liberismo.

Ed Bugos ha scritto che, «la questione oggi è se si produce ciò che richiede il mercato o ciò che vuole il governo».

Come si vedrà nei prossimi capitoli, la bolla immobiliare è nata e si è sviluppata proprio perché si produceva ciò che voleva il governo, produzione finanziata con il denaro creato dal nulla da un ente governativo, la Federal Reserve.

La Deregulation

E’ stata allora la deregulation a causare la crisi finanziaria?

La bolla immobiliare negli Stati Uniti e la crisi dei mutui subprime hanno fatto tornare alla ribalta il pensiero di un economista, Hyman Minsky (1992), che aveva elaborato un’interessante teoria sull'instabilità innata delle economie capitaliste.

La tesi di Minsky è che l'economia capitalista, durante i periodi di prosperità tenda da sola a diventare instabile ed a generare quelle bolle speculative il cui scoppio porta alla inevitabile crisi finanziaria.

La spiegazione suona più o meno così: quando le cose vanno bene, per chi è impegnato nelle aree più remunerative dell'economia, diventa molto appetibile indebitarsi. In sostanza più ci si indebita e si investe nel settore favorevole più si fanno soldi. Poiché l'economia sembra solida e le finanze dei debitori sembrano essere in buona salute, anche le banche sono meno restie a concedere prestiti.

Col passare del tempo i debiti si accumulano ed iniziano ad aumentare più dei profitti con i quali i debitori intendono ripagarli. Si arriva quindi ad un punto di non ritorno (Minsky moment) e si innesca la crisi.
 
Minsky fa distinzione tra tre tipologie di debitori:

- Il primo tipo sono gli hedge borrowers, ovvero coloro i quali sono in grado di ripagare sia il montante, sia gli interessi.
 
- La seconda categoria raggruppa gli speculative borrowers, cioè coloro i quali possono ripagare gli interessi ma che devono nuovamente indebitarsi per poter rimborsare il prestito originale.

- La terza categoria è infine quella dei Ponzi borrowers, cioè coloro i quali non possono né pagare gli interessi, né rimborsare il prestito ma fanno affidamento sul fatto che il prezzo degli asset che hanno acquistato continuerà a salire per poter rifinanziare il loro debito.

Durante un periodo di stabilità e crescita, secondo Minsky, le economie capitaliste tendono spontaneamente a muoversi da una situazione in cui vi è una maggioranza di hedge borrowers ad una dominata dalla finanza speculativa dei Ponzi borrowers, sino a giungere all'inevitabile collasso.

Il processo è aggravato dal fatto che le banche, durante il periodo di crescita, cercano di convincere gli investitori a comprare titoli di debito, magari offrendo prodotti finanziari dal nome accattivante o presentati come innovativi.

La ricerca del profitto "sempre più alto" e "ad ogni costo" dirige quindi i risparmi verso investimenti ad elevato rischio e poca sostanza, ma che offrono però un alto rendimento potenziale.

Quando cambiano le condizioni e viene rivelata la vera natura di questi "investimenti" la bolla speculativa scoppia e si genera la crisi.
 
Senza un intervento correttivo dall'alto, sempre secondo Minsky, la crisi può sfociare in un vero e proprio tracollo finanziario ed è quindi compito delle autorità politiche e monetarie intervenire regolamentando il mercato e fornendo liquidità al sistema bancario in modo che non collassi.

Chi segue questa teoria sostiene che negli ultimi anni vi è stato un sostanziale processo di deregulation il quale ha eliminato quegli argini che sono necessari per evitare l’instabilità intrinseca del sistema capitalistico. Tolte queste protezioni era solo questione di tempo perché il fiume straripasse travolgendo tutto e tutti.

La tesi per cui sia stata una generica deregulation a causare il problema nel mercato immobiliare è stata sostenuta da moltissimi politici, tra cui lo stesso Obama  durante i dibattiti presidenziali, ma in pochi hanno indicato quali sono state le leggi che mantenevano la stabilità e la cui abolizione ha permesso il disastro.

Tra questi ultimi vi è William K. Black, che negli anni ’80, nella sua funzione di regolatore, prese severi provvedimenti durante la crisi delle banche Savings & Loans e che in un’intervista a Bill Moyers  mandata in onda alla PBS ha cercato di spiegare che cosa aveva causato la crisi e qual era stato il ruolo del processo di deregulation nel determinarla.

Questa è la sua tesi.

La crisi è stata originata dalla frode perpetuata da chi ha creato i mutui, dalle agenzie di rating, dalle banche di investimento e dalla AIG.

Se è vero che molti dei comportamenti che hanno dato origine alla crisi sono configurabili come frodi, questo tuttavia non giustifica l’equivalenza tra frode e mancanza di regolamentazione.

Uno degli esempi più lampanti di frode è stato quello all’origine dello scandalo Madoff  e non si può certamente sostenere che vi sia stata mancanza di regolamentazione in quel caso.

Infatti, come ricorda Sheldon Richman (2009):

«Le leggi contro le frodi, ovvero contro l’acquisizione con l’inganno della proprietà altrui, non sono mai stati considerati come “regolamentazione del mercato” e non hanno mai costituito un difetto del libero mercato. Sono semplicemente parte della proibizione, presente nella common law del libero mercato, di violare la proprietà altrui».

Al contrario, se la truffa di Madoff ha potuto continuare tanto a lungo , questo è dovuto al fatto che l’agenzia governativa che doveva vigilare, ovvero la SEC, ha ignorato per nove lunghi anni tutte le segnalazioni, effettuate da enti privati, che evidenziavano le irregolarità da parte dell’ex presidente del Nasdaq.

Come ha scritto infatti Harry Markopolos, che per nove lunghi anni aveva presentato alla SEC prove della truffa di Madoff ed aveva chiesto di aprire un’inchiesta,

«Sin dal Maggio 2000, ho fornito all’ufficio regionale di Boston della SEC delle prove che avrebbero dovuto far iniziare un’inchiesta su Madoff. Ho ripresentato queste prove, aggiungendo ulteriore materiale di supporto, molte volte tra il 2000 ed il 2008, un periodo di nove anni. Eppure nulla è stato fatto. [..] Vi è stato un completo fallimento delle agenzie di regolamentazione a cui ci affidiamo perché agiscano da guardiani».
 
Per quanto riguarda invece le agenzie di rating, sino al 2007 era la SEC a fornire loro, de facto, una licenza, creando quindi un oligopolio a tre (Moody’s, Finch, Standard & Poor’s) che è stato rotto solo di recente. In una situazione del genere è molto facile che si creino delle collusioni tra controllori e controllati in cui vengono prodotti rating fraudolenti.

L’FBI aveva nel settembre 2004 lanciato un allarme pubblico su una possibile epidemia di frodi nel mercato dei mutui ma dopo l’11 Settembre  il Dipartimento della Giustizia aveva trasferito, senza rimpiazzarli, 500 specialisti al dipartimento anti-terrorismo e non vi erano quindi abbastanza agenti per indagare sulla vicenda.

Anche qui parlare di deregulation è fuorviante perché in realtà la ragione del trasferimento di quegli agenti è stata tutta politica e finalizzata a spostare le risorse governative per combattere il nemico che, volta per volta, viene percepito come prioritario.

Abolizione del Glass Steagall Act nel 1999, ovvero della legge che impediva alle banche commerciali di comportarsi come banche di investimento.

Questo è invece un chiaro esempio di deregulation ma siamo sicuri che questa misura sia stata una delle cause per la debacle finanziaria? Secondo Sheldon Richman (2008) parrebbe di no.

Il Congresso ha impedito che il CFTC (Commodity Futures Trading Commission) regolamentasse il mercato dei Credit Default Swap

Anche qui siamo di fronte ad un caso di deregulation e sicuramente l’intervento della CFTC avrebbe potuto in qualche modo mitigare alcuni degli effetti distruttivi dei CDS. Siamo sicuri però che la regolamentazione dei Credit Default Swap avrebbe risolto le cose? In quale modo un regolatore, che è spesso prigioniero dell’industria che deve regolamentare, può avere la conoscenza e la volontà di partorire delle regole così precise ed efficaci da rendere inoffensive delle vere e proprie “armi di distruzione di massa finanziarie”, come le ha definite il finanziere Warren Buffett ?

Il governo non ha adottato la Prompt Corrective Action Law, emanata dopo lo scandalo S&L, che rendeva obbligatoria la chiusura delle banche fallite.

Qui è deregulation oppure fallimento del governo? Dopotutto in questo caso la legge esisteva ma è stata l’Amministrazione ad agire con discrezionalità e decidere di non applicarla

In sostanza, più che attribuire la colpa alla deregulation, lo stesso Black sembra puntare il dito contro il governo e le agenzie di controllo che non hanno indagato sui reati di frode che venivano commessi, che non hanno seguito le procedure messe a punto durante gli scandali precedenti e che in sostanza hanno lasciato che il moral hazard nel settore creditizio prosperasse.

In realtà, come vedremo nel prossimo capitolo,  i comportamenti di azzardo morale più che  dalla presunta deregulation sono stati favoriti proprio dalla regolamentazione del mercato immobiliare che intendeva promuovere l’acquisto di una casa anche per quelle fasce di reddito che non se lo potevano permettere.

Il Moral Hazard

Le cause della crisi: il moral hazard nel mercato immobiliare

Dopo questi primi capitoli diventa lecito porsi una domanda: se non sono state le politiche laissez-faire e nemmeno la deregulation ad essere la causa primaria della grave crisi finanziaria del 2008, allora chi è stato?

Alcuni economisti (Woods, 2008) e politici hanno individuato le cause della bolla immobiliare e del disastro finanziario proprio nelle politiche dei governi degli ultimi anni.

Contrariamente alla credenza pubblica che vede le ultime amministrazioni statunitensi come laissez-faire, sarebbe stato proprio l’intervento governativo sul mercato immobiliare a creare la bolla speculativa scoppiata alla fine del 2006 che ha innescato la crisi.

Questa linea di pensiero, condivisa principalmente dagli economisti di scuola austriaca, punta i riflettori sugli incentivi all’azzardo morale contenuti nelle politiche governative volte ad estendere artificialmente la percentuale di cittadini americani proprietaria della propria abitazione e soprattutto sul ruolo della politica monetaria della Federal Reserve nel fornire i mezzi per gonfiare la bolla speculativa.

Che cos’è l’azzardo morale?

Il termine azzardo morale (moral hazard) è stato coniato in microeconomia per indicare il comportamento di chi, dopo aver sottoscritto un contratto, modifica il proprio comportamento confidando sul fatto che la controparte non possa verificare la presenza di dolo o negligenza.

Ad esempio, nel campo assicurativo, per azzardo morale si intende il comportamento di un automobilista che, dopo aver sottoscritto un’assicurazione, adotta un comportamento meno prudente poiché non deve rispondere degli eventuali danni che andrà a causare.

L’azzardo morale, però, si trova anche a livello di macroeconomia e spesso sorge a causa dell’intervento governativo.

Se un operatore economico, ad esempio una banca, è ragionevolmente certo di non dover pagare gli eventuali costi di un investimento rischioso andato male, ad esempio perché lo Stato interverrà scaricando i costi sulla collettività,  allora è molto facile che abbandoni un comportamento di tipo prudente e decida di giocare d’azzardo.

Partecipa in questo modo ad un grande gioco in cui se esce testa si vince mentre se esce croce è la collettività a perdere.

Lo svilupparsi della bolla immobiliare e gli interventi di salvataggio che hanno costellato il suo collasso ricadono proprio in questa categoria di azzardo morale.
 

Una lezione di economia politica

Quando il governo interviene attivamente sui mercati e cerca di sostituire alle leggi economiche la propria volontà politica, spesso e volentieri va ad introdurre degli elementi distorsivi i quali diventano poi, dopo un lasso di tempo magari molto lungo, la causa scatenante di disastri futuri.

Questo perché, come ha scritto Henry Hazlitt (1988) :

«quando entriamo nel campo dell’economia pubblica, certe verità elementari vengono ignorate. Ci sono uomini che sono considerati brillanti economisti i quali disprezzano i risparmi e raccomandano una spesa massiccia e su scala nazionale come via per la salvezza economica; e quando qualcuno fa vedere quali saranno le conseguenze di queste politiche sul lungo termine, questi replicano in maniera disinvolta, come potrebbe fare il figliol prodigo agli avvertimenti del padre: “Nel lungo termine saremo tutti morti.”
[..] Ma la tragedia è che al contrario stiamo già soffrendo le conseguenze di lungo termine delle politiche del remoto o recente passato. Oggi è già quel domani che il cattivo economista di ieri ci incoraggiava ad ignorare.[..]

Si può quindi dire che l’intera disciplina dell’economia [politica] può essere ridotta ad una singola lezione e questa può essere riassunta in una singola frase: “L’arte dell’economia consiste nel guardare non solo alle immediate conseguenze di una scelta politica ma anche a quelle di lungo termine; consiste nel tracciare le conseguenze di quella scelta non solo per un gruppo ma per tutti i gruppi”.»
 

La lezione di Henry Hazlitt applicata alla bolla immobiliare

«Vogliamo  che tutti in Americani possiedano la propria casa.. Questo è  ciò che vogliamo. »
                George W. Bush, 15 Ottobre 2002

Fannie Mae e Freddie Mac

«Fannie Mae and Freddie Mac hanno promesso di fornire più denaro per i prestatori. Hanno promesso di aiutarci a superare la scarsità di capitali per l’acquisto di una casa a disposizione delle minoranze »
George W. Bush, 15 Ottobre 2002

Nel Settembre 2008 il governo americano ha in pratica nazionalizzato i due colossi pubblico-privati Fannie Mae e Freddie Mac salvandoli dalla bancarotta. Ma qual era il ruolo di queste due GSE (government sponsored enterprises) nel mercato immobiliare e perché sul lungo periodo hanno permesso di creare una gigantesca bolla speculativa?

Fannie Mae e Freddie Mac non sono agenzie che concedono mutui alle famiglie che vogliono comprare una casa ma operano in modo diverso. Comprano, infatti, sul mercato secondario i mutui che sono già stati concessi e poi li “impacchettano” dentro obbligazioni finanziarie che erano giudicate “a basso rischio”.
 
In pratica se una banca prestatrice di ipoteca (mortgage lender) concedeva un mutuo ad una famiglia, poi poteva rivenderlo, insieme ai relativi pagamenti, a Fannie o Freddie, rientrando del capitale prestato e potendo così concedere un ulteriore mutuo. Poiché in questa transazione la banca prestatrice guadagnava i soldi della commissione, essa era incentivata a concedere nuovi mutui fintanto che Fannie Mae e Freddie Mac continuavano a comprarli.

Poiché le due GSE godevano di una speciale linea di credito con il governo e poiché vi era la volontà politica di estendere quanto più possibile il numero di coloro che potevano accedere ad un mutuo, le due agenzie semipubbliche, poco prima della crisi, erano arrivate a detenere o garantire quasi il 50% dei mutui americani, per una cifra che si aggirava sui 5200 miliardi di dollari.

Le banche di investimento che acquistavano le obbligazioni  rilasciate da Fannie e Freddie, inoltre, sapevano che il governo avrebbe avuto un occhio di riguardo per queste due agenzie e non le avrebbe lasciate fallire. Avevano pienamente ragione:  sono state nazionalizzate.

Come denunciava Ron Paul al Congresso già nel 2003 ,

«trasferendo il rischio di una diffusa bancarotta nel mercato dei mutui, il governo accresce la possibilità di un doloroso crac del mercato immobiliare. Questo perché gli speciali privilegi di Fannie e Freddie hanno distorto il mercato immobiliare facendo in modo che queste agenzie attraessero del capitale a cui nelle normali condizioni di mercato non avrebbero accedere.»

 

Il Community Reinvestment Act

«Abbiamo un problema qui in America perché meno della metà degli ispanici e metà degli afroamericani possiede una casa.[..] E’ un gap che dobbiamo colmare insieme per il bene del nostro paese»

George W. Bush, 15 Ottobre 2002

Alcuni economisti, come Stan Liebowitz, hanno spiegato come sono stati proprio i “regolatori” che oggi vengono invocati a gran voce ad imporre un rilassamento dei requisiti per ottenere un mutuo e a gonfiare la bolla dei mutui subprime.

Sin dagli anni ottanta gruppi di attivisti come ACORN iniziarono ad accusare le banche di discriminare le minoranze per quanto riguarda la concessione di mutui. [..] In effetti le richieste di mutuo presentate dalle minoranze venivano respinte più di frequente rispetto ad altri gruppi ma non a causa di una discriminazione razziale ma piuttosto per il fatto che le loro finanze erano più deboli. [..] Nel 1992 uno studio della Fed di Boston concluse che nel mercato dei mutui la discriminazione era sistemica. Lo studio presentava numerosi errori [..] ma tuttavia l’agenda politica ebbe la meglio [..] e la Fed produsse un manuale per i mortgage lenders in cui si affermava che “la discriminazione può essere osservata quando le polizze contengono criteri arbitrari e datati i quali mettono fuori gioco molti dei richiedenti che fanno parte delle minoranze più povere”
 

Quali erano questi criteri?

Alcun di questi criteri “datati” includevano l’entità del mutuo relativamente al reddito, la storia creditizia, la verifica effettiva del reddito.

La revisione del Community Reinvestment Act del 1995 proseguì in questa direzione, richiedendo «alle banche di trovare vie per fornire mutui alle comunità più povere»  e permettendo «agli attivisti delle comunità di recensire annualmente le banche» in modo tale che «le banche che ricevevano una valutazione negativa venissero penalizzate».

Gli incentivi contano

Robert Gordon contesta questa posizione e sostiene invece che la causa della bolla immobiliare sia un chiaro fallimento del mercato.

«Ritenendo che la bolla non sarebbe mai scoppiata, i prestatori hanno approvato mutui a tasso variabile sempre più rischiosi, spesso senza considerare se chi li sottoscriveva avrebbe potuto rimborsarli; le famiglie si lanciarono su questi mutui, gli investitori li comprarono sotto forma di obbligazioni e nel mentre i regolatori se ne stettero con le mani in mano».

Chi sostiene questa teoria però non tiene conto del fatto che, se pure la creazione della bolla immobiliare non è attribuibile in toto a quelle leggi ed a quelle linee di politica economica, tuttavia sono stati gli incentivi distorsivi da esse prodotti a favorire l’insorgere del moral hazard nel settore creditizio ed a creare una gigantesca bolla speculativa.

Ma da dove sono arrivati i soldi per creare questa bolla?

Rispondere a questa domanda significa anche individuare il vero e principale responsabile della crisi, ovvero la Federal Reserve ed in generale il Sistema Monetario Internazionale.

La Politica Monetaria

Le cause della crisi: la politica monetaria della Federal Reserve

Milton Friedman, (2006) ha consacrato in questa maniera la carriera di Alan Greenspan come banchiere centrale:

«Nel corso della nostra lunga amicizia, Alan Greenspan ed io ci siamo generalmente trovati d’accordo sulla teoria e sulla politica monetaria tranne che per una grande eccezione. Io ho per lungo tempo favorito l’uso di strette regole per controllare il quantitativo di moneta creata. Alan sostiene che mi sbagli e sia preferibile, anzi essenziale, agire in modo discrezionale. Ora che dopo 18 anni il suo turno come chairman della Fed è finito, devo confessare che la sua performance mi ha persuaso che aveva ragione lui.

La sua performance è stata davvero straordinaria. Non c’è stato nessun altro periodo di tempo di lunghezza comparabile in cui la Federal Reserve ha funzionato così bene. »

E’ un peccato che Friedman non abbia vissuto abbastanza per ricredersi nuovamente.

La manipolazione del tasso di interesse e la teoria austriaca del ciclo economico

Per sostenere che la causa della bolla immobiliare, e dei cicli economici in generale,  sia da ricercare nei processi di espansione e di contrazione dell’offerta di moneta attuati dalle banche centrali è necessario avere alle spalle una solida teoria economica che spieghi il processo causale tra i due fenomeni. Questa teoria è precisamente l’Austrian Theory of Business Cycle, sviluppata dagli economisti Ludwig Von Mises (1981) e Friedrich Von Hayek (2008a) durante la prima metà del secolo scorso.

Teoria Austriaca del ciclo economico: una teoria del capitale

Quando nei corsi universitari si studia che cosa sia il “capitale”, spesso e volentieri la trattazione viene fatta in modo molto semplificato ed approssimativo. In tutti i vari modelli economici il Capitale, che pure è variegato ed ha una struttura ben definita, viene semplicemente definito con una variabile K, condensando in un numero, una sorta di blob informe ed onnicomprensivo, una struttura complessa e carica di informazioni economiche.

Se però consideriamo la storia del pensiero economico vediamo che, già alla fine dell’800, Eugene Bohm Bawerk aveva mostrato come bisognasse considerare il Capitale nella sua struttura temporale, non come una variabile statica, e definire una relazione tra questa struttura ed il tasso di interesse.
 
Tra gli anni venti e gli anni trenta del Novecento erano poi stati Ludwig Von Mises (1981) e  Friedrich Von Hayek (2008a) a definire in modo ancora più preciso la teoria e spiegare le ripercussioni di una variazione del tasso di interesse sulla struttura del capitale

La teoria esamina due situazioni: la prima in cui il tasso di interesse scende a fronte di un aumento dei risparmi reali e la seconda in cui questa diminuzione avviene a causa di un’espansione monetaria indotta dal sistema bancario.

Crescita economica indotta da un aumento dei risparmi reali

A volte può essere utile utilizzare dei diagrammi grafici riassuntivi per spiegare una teoria economica. Non facciamoci ingannare però: il grafico mostra una realtà semplificata ed è solo utile per comprendere i meccanismi che sono alla base delle leggi economiche e non per effettuare previsioni quantitative.

Nel nostro caso utilizzeremo la teoria del mercato dei fondi mutuabili (loanable funds) per determinare il tasso di interesse all’interno del sistema economico ed osservare poi quali sono le ripercussioni di una sua variazione nell’economia.
 

Fig. 1(a) Domanda ed Offerta di fondi mutuabili (aumento dei risparmi reali)

Il tasso di interesse è il punto di incontro tra la domanda e l’offerta di credito e quindi è un vero e proprio “prezzo”.

Nel nostro caso supponiamo inizialmente che l’offerta di credito sia determinata interamente dal risparmio delle famiglie e che si trovi nella configurazone S. Il tasso di interesse che si determina sul mercato è quindi i ed il livello di investimenti (e dei risparmi) viene individuato dal segmento OA. Ovviamente, poiché il reddito delle famiglie viene diviso tra consumi e risparmio, ad un livello OA di risparmio corrisponderà un preciso livello C di consumi.

Che cosa succede quando le famiglie decidono di risparmiare di più? La curva dell’offerta di credito si sposta verso destra nella configurazione S’. Il tasso di interesse determinato dal mercato sarà quindi più basso, al livello i’ ed il livello di investimenti (e di risparmi) verrà individuato dal segmento OB > OA. Le famiglie, avendo deciso di risparmiare di più, consumeranno quindi di meno, ad un livello C’.

L’economia è ora pronta per crescere in modo sostenibile. Le famiglie hanno segnalato agli imprenditori di voler diminuire i consumi attuali per aumentare quelli futuri ed il risparmio reale che si è creato è proprio ciò che alimenterà gli investimenti necessari per modificare la struttura del capitale ed aumentare la produzione.

Crescita economica indotta da un’espansione monetaria

Vediamo ora che cosa succede quando lo spostamento della curva dell’offerta di credito, dalla configurazione S a quella S’, non è il frutto dell’aumento del risparmio delle famiglie ma di un’espansione monetaria ΔM.

Figura 1(b) Domanda ed offerta di fondi mutuabili (espansione monetaria)

Anche in questo caso il livello degli investimenti si sposta  dal livello OA a quello OB ed il tasso di interesse scende a i’. Le famiglie però continuano ad allocare le proprie risorse tra risparmio e consumi lungo la curva S per cui i risparmi caleranno al livello OC proprio mentre gli investimenti sono aumentati al livello OB.

Che cosa succede all’economia?

Da una parte abbiamo le famiglie che, a fronte di un tasso di interesse minore, hanno deciso di diminuire i risparmi ed aumentare i consumi presenti. Se il tasso di interesse è molto basso l’incentivazione diventa ancora più perversa ed è possibile che le famiglie aumentino i loro consumi ricorrendo anch’esse allo strumento del credito ed annullando di fatto i loro risparmi. Questo è proprio ciò che è successo negli Stati Uniti negli ultimi anni..

Dall’altra parte abbiamo invece gli imprenditori che interpretano il calo del tasso di interesse come il segnale che le famiglie stanno ora risparmiando e saranno quindi pronte ad aumentare i consumi nel prossimo futuro. Il tasso di interesse molto basso fa sì che numerosi progetti di investimento che erano stati inizialmente giudicati fallimentari ora siano visti come profittevoli. Non solo aumentano gli investimenti oltre la capacità di risparmio (overinvestment) ma questi vengono indirizzati verso progetti che sono destinati a fallire (malinvestment).

La struttura del Capitale viene quindi “tirata” in due direzioni: nella sua parte terminale, per far fronte ad un aumento dei consumi ed in quella iniziale, per far fronte all’aumento degli investimenti. Chiaramente questo tipo di crescita non è sostenibile e la situazione è destinata a tradursi in un boom che, dopo un certo periodo, si tramuta in recessione.

 Ludwig Von Mises (2007) ha descritto questo processo con una metafora.

«L’intera classe imprenditoriale si trova nella posizione di un capomastro che deve costruire un edificio avendo a disposizione una scorta limitata di materiali da costruzione. Se quest’uomo sovrastima la quantità delle scorte allora preparerà un progetto che non può essere completato con le risorse che ha a disposizione. Sovradimensionerà le fondazioni e solo più tardi, durante la prosecuzione dei lavori, scoprirà che non dispone dei materiali che sono necessari per il completamento della struttura».

La crisi del 2008/2009 è spiegabile tramite l’Austrian Theory of Business Cycle?

Se osserviamo la storia economica degli ultimi anni la risposta non può che essere un sì. Dopo l’11 Settembre 2001 e ad appena un anno di distanza dallo scoppio della bolla azionaria della New Economy, il Chairman della Federal Reserve Alan Greenspan decise di avviare una politica monetaria espansiva per far “ripartire l’economia”. Il “Maestro” decise così di tagliare il tasso di interesse sino all’1% e tenerlo a quel livello per un anno intero, dal giugno 2003 al giugno 2004.
 
Fig. 2 Tasso di sconto della Federal Reserve

Fonte: Federal Reserve

Il risultato fu una massiccia espansione monetaria che non aveva avuto precedenti nella storia degli Stati Uniti d’America.

Come abbiamo visto la teoria economica austriaca postula che una massiccia iniezione di liquidità nel sistema creditizio provochi da una parte un calo del risparmio delle famiglie e dall’altro un boom insostenibile di investimenti a lungo termine che ora sembrano produttivi a causa del calo dei tassi di interesse.

Se poi consideriamo i tassi di interesse reali, aggiustati per l’inflazione (o meglio ciò che oggi viene chiamato inflazione), l’immagine risulta ancora più chiara. Questi tassi di interesse, infatti, risultavano essere addirittura negativi!
 
Fig 3. Tasso di interesse reale

Fonte: Federal Reserve St. Luois

Nel frattempo le famiglie americane decidevano di non risparmiare praticamente nulla del loro reddito ed anzi fare largo uso dello strumento del credito per aumentare a dismisura i propri consumi proprio durante gli  anni del boom. Il risultato è stato che l’indebitamento delle famiglie americane ha raggiunto il livello record di 13800 miliardi di dollari.

Fig. 4. Tasso di risparmio delle famiglie americane

Fonte. BEA

Il malinvestment: la bolla immobiliare ed il mercato dei mortgage backed securities

Come si è visto la teoria austriaca del ciclo economico prevede che una politica monetaria espansiva si traduce in un boom insostenibile nei primi stadi della catena produttiva. Se esaminiamo il periodo 2002-2006, possiamo notare come la bolla si sia sviluppata nel settore immobiliare e nel settore finanziario dei derivati che vi facevano riferimento.

Come mai il malinvestment si è concentrato in quel mercato e non in un altro? Le cause sono molteplici.

Innanzitutto bisogna notare come negli anni del boom il tasso di interesse richiesto per i mutui a 30 anni, ovvero quelli utilizzati per acquistare le case, hanno raggiunto il livello più basso di sempre.

Fig. 5. Tasso di interesse dei mutui a 30 anni

Fonte: Federal Reserve

Inoltre per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, i prezzi delle case hanno continuato a salire anche durante una recessione (quella successiva allo scoppio della bolla dot com), tanto che si inizio a sentir dire che “i prezzi delle case aumentano sempre”, “Il mattone è un investimento sicuro” e così via.

Fig. 6. Confronto tra il tasso di sconto della Fed e l’indice dei prezzi delle case americane

Fonte: Case-Schiller home price index

Tutto questo, unito alle raccomandazioni di Greenspan (2004) nel suo discorso del 23 febbraio 2004,

«Delle recenti ricerche fatte all’interno della Federal Reserve suggeriscono che molti proprietari di case avrebbero potuto risparmiare decine di migliaia di dollari se avessero sottoscritto un mutuo a tasso variabile invece che un mutuo a tasso fisso durante gli ultimi dieci anni»

ha fatto sì che il malinvestment si concentrasse proprio nel settore immobiliare e che i nuovi acquirenti di case decidessero di ricorrere ai mutui a tasso variabile per finanziare il proprio acquisto.

Come ha fatto notare Thomas Woods (2008), sebbene i media abbiano puntato il dito contro i mutui subprime, in realtà sono stati proprio i mutui a tasso variabile, che fossero prime o subprime, a subire il tracollo maggiore quando la bolla è scoppiata

In conclusione le responsabilità della Federal Reserve sono innegabili e danno una chiara illustrazione di come si sviluppa il ciclo economico secondo la teoria del ciclo economico sviluppata da Mises ed Hayek.

Quali Regole?

Quali regole per il mercato?

L’uomo della strada, scevro di nozioni economiche, tende a vedere con sospetto l’economia di mercato. Dopotutto essa consiste di una miriade di individui che agisce egoisticamente per raggiungere i propri obiettivi, non preoccupandosi affatto di quello che è il cosiddetto “bene comune”. Il mercato è una giungla dove vige la legge del più forte, dove trionfa l’odiata logica del profitto. Come possono gli economisti liberisti affermare che il mercato si regola da sé e porta al benessere collettivo guidato dalla mano invisibile di Adam Smith? Le crisi economiche non dimostrano forse che questa visione è completamente errata?

Seguendo questa prospettiva diventa necessario che ci sia un organismo di vigilanza che intervenga con la necessaria motivazione e conoscenza per regolamentare il mercato ed impedire che si autodistrugga.

Come abbiamo visto nel primo capitolo, però, il liberismo laissez-faire non sostiene che il mercato proceda con il pilota automatico e nemmeno che le regole non siano necessarie. Mette però in guardia contro gli interventi statali che, distorcendo i segnali prodotti dal mercato, producono boom insostenibili ed il proliferare di comportamenti di azzardo morale.

La teoria neoclassica: servono regole al mercato?

Vi è poi la posizione della teoria economica neoclassica, la quale considera il mercato (o meglio i mercati) come uno stato piuttosto che come un processo dinamico. Studiando microeconomia si impara la nozione di “stato di equilibrio economico generale” o di “concorrenza perfetta” senza che venga minimamente affrontato il problema di come si arrivi a questo stato. Spesso e volentieri, poi, la teoria viene elaborata supponendo che ogni attore possieda una perfetta informazione riguardo l’intera economia.

Gli economisti che seguono questo approccio si possono poi dividere in due categorie:

C’è chi  ipotizza  che i mercati realizzino sempre un risultato vicino a quello di equilibrio competitivo. Il sistema di mercato, quando non è distorto dagli interventi del regolatore,  è efficiente ed i prezzi sono approssimativamente al loro livello ideale in modo che tutte le opportunità di transazione volontaria sono realizzate. I problemi sono tali solo per chi ha idee e valori che si discostano da quelli prevalenti nel mercato e quindi non vi è affatto la necessità di un intervento del regolatore che anzi è solo deleterio.

Questi sono gli economisti che l’uomo della strada chiama “liberisti” ma il più delle volte queste posizioni in realtà sono utilizzate solo per giustificare interventi di apparente deregolamentazione che in realtà forniscono privilegi a particolari gruppi di interesse.
 
Vi è poi un’altra categoria di economisti che segue l’approccio microeconomico neoclassico la quale nota invece come i mercati sono spesso lontani dalla situazione di equilibrio competitivo. Se questo avviene, in assenza di intervento distorsivo dello Stato, è perché vi è la presenza di asimmetrie informative o di cartelli che impediscono di raggiungere lo stato di perfetta concorrenza e di assicurare alla collettività l’allocazione ottima delle risorse.

Queste situazioni non ottimali sono chiamate “fallimenti del mercato” ed il regolatore è chiamato in causa per correggere la situazione ed assicurare che la situazione ottima  venga raggiunta.

Mises, Hayek ed il mercato come processo

La scuola austriaca di economia contesta espressamente la visione del mercato come stato ed invece concentra il suo studio sul processo dinamico che guida gli attori economici verso uno stato di equilibrio posto lontano nel tempo ma che non viene mai raggiunto.

Scrive Mises (2007, p.244):

«Lo stato di equilibro finale è una costruzione immaginaria, non una descrizione della realtà. Questo perché lo stato di equilibrio finale non verrà mai raggiunto. Emergeranno sempre nuovi fattori di disturbo prima che venga realizzato. E’ necessario ricorrere a questa costruzione immaginaria perché il mercato, ad ogni istante, si sta muovendo verso questo stato di equilibrio. Ogni istante successivo, però, può creare nuovi fatti che alterano lo stato di equilibrio finale».

 
Friedrich Hayek (2002) va oltre e sottolinea l’assurdità di chiamare “concorrenza perfetta” uno stato in cui  «l’opportunità per quell’azione che chiamiamo competizione non c’è più».

Nell’economia di mercato o meglio l’ordine di mercato, come viene definito da Hayek, gli individui prendono le loro decisioni di consumo, produzione, etc. in base alle opzioni disponibili che ritengono migliori .

Poiché il risultato di queste scelte dipende dalle azioni future di tutti gli altri attori economici, esse sono prese sulla base delle aspettative di quello che sarà il futuro. Poiché il domani è incerto alcune aspettative saranno giuste, altre sbagliate e le scelte fatte condurranno a risultati (guadagni o perdite) che verranno utilizzati per formare aspettative più accurate.

L’ordine di mercato, in sostanza, è un processo di scoperta in cui i partecipanti vengono a conoscenza, attraverso gli scambi, i profitti e le perdite, di quelle che sono le abilità ed i desideri degli altri. Ad esempio se nell’anno 2008 vengono vendute molte meno automobili rispetto al 2007, ciò significa che i consumatori non intendevano realmente comprare ogni anno così tante automobili come era sembrato in precedenza. Le perdite nel settore automobilistico segnalano quindi che, per il 2009, il mercato richiede meno automobili e non che il governo deve intervenire con leggi (es. proibendo la circolazione delle vecchie automobili) e sussidi per stimolare la domanda di automobili nuove.
 

Qual è una buona regola per il mercato?

Seguendo il pensiero di Hayek, Israel Kirzner (1982) scrive che:

« [Per giudicare gli interventi  del regolatore sul mercato] dobbiamo chiederci: può la struttura istituzionale (o le modifiche che vengono proposte) stimolare un flusso ragionevolmente regolare e significativo di scoperte corrette? [..] Se una modifica aumenta la propensità del sistema di stimolare (corrette) scoperte allora rappresenta una proposta “benigna”; al contrario,  se è invece probabile che la proposta impedisca o alteri il processo di scoperta allora è dannosa.»

Come spiega sempre Kirzner il mercato, laddove non via siano barriere artificiali che impediscono a nuovi potenziali competitori di entrare, tende ad assicurare il processo di scoperta delle informazioni mentre il regolatore istituzionale, anche quando non è spinto da interessi particolari (ad es. le lobby) tende a stabilire regole dannose.

«E’ probabile che i tentativi di migliorare [il processo di scoperta del mercato] con regole dirette siano basati su informazioni erronee (perché i regolatori non possono utilizzare il processo di scoperta costituito dalla ricerca del profitto) e quindi probabilmente bloccheranno o produrranno distorsioni al delicato processo di scoperta del mercato».

Abbiamo visto come tutta la regolamentazione del settore immobiliare abbia alterato il processo di scoperta delle informazioni di quel mercato (i prezzi delle case) e come l’intervento della Fed abbia invece alterato il processo di scoperta dell’intera economia, alterando artificialmente il tasso di interesse.
 

E’ quindi la deregulation la soluzione? Non è detto.

Il criterio di giudizio proposto da Kirzner ed Hayek è infatti valido non solo quando viene introdotta una regola ex novo ma anche quando viene modificato il sistema esistente e quindi anche quando viene rimossa qualche regola.

Come nota Thomas Woods (2008)

«In un sistema tanto lontano dal vero libero mercato che terze parti (i contribuenti) devono pagare per il comportamento folle e azzardato di imprese private [..] la “deregulation” è l’approccio migliore? Questo a meno che non si proceda ad una vera deregulation, che abolisca tutti i privilegi di monopolio e promuova la libera concorrenza, che tratti le banche come un’industria qualsiasi e non come istituzioni privilegiate che possono scaricare sulla collettività i costi dei loro errori, e che soprattutto che proceda ad eliminare il monopolio governativo sulla moneta, ovvero la causa prima del ciclo economico e dell’inflazione.»

 

Conclusione: Ritorno al libero mercato

Ludwig Von Mises (2007) sosteneva che esistono due concezioni economiche di società estreme ed opposte: la prima è quella del libero mercato così come concepito dai sostenitori del capitalismo laissez-faire, la seconda è la pianificazione centrale tipica della concezione socialista.

Le società reali si collocano in una via di mezzo tra i due estremi ma, sempre secondo Mises, finché permane la possibilità di uno scambio tendenzialmente libero, ovvero finché rimane un sistema di prezzi di mercato, esse saranno sempre economie di mercato, più o meno distorte dall’interventismo statale.

Friedrich Hayek ( 2002) sottolineava proprio come fosse il sistema dei prezzi  a coordinare l’informazione e la conoscenza e conciliare quindi le pretese individuali su risorse scarse. E’ quindi chiaro che, secondo questa visione, avere un sistema di veri (non distorti) prezzi di mercato è necessario per assicurare quel delicato processo di scoperta che è alla base dell’ordine di mercato.

Ma qual è il prezzo più importante per l’ordine di mercato? Secondo gli economisti austriaci, questo “prezzo” è il tasso di interesse, perché trasmette informazioni sulle preferenze temporali degli attori del mercato (quanto vogliono consumare? Quanto risorse sono state risparmiate per finanziare gli investimenti?) e permette quindi il coordinamento della produzione nel tempo.
 
La distorsione artificiale del tasso di interesse, provocata dalle banche centrali e dal sistema bancario, produce un generale scoordinamento temporale tra le decisioni degli agenti economici investitori e i consumatori, producendo quindi i cicli economici di espansione e contrazione.

Le politiche fiscali anticicliche keynesiane, le politiche monetarie monetariste ed i giochi di prestigio di Greenspan, non solo non sono necessari per stabilizzare l’economia ma anzi vanno a distorcere ulteriormente la struttura produttiva, impedendo che questa si riorganizzi.

Quello che è necessario è invece riformare il sistema monetario vigente, basato su di una moneta fiat e sulla garanzia statale dei depositi delle banche commerciali, per tornare ad una moneta sana e ad un sistema bancario solido.

Quali regole possono assicurare questi obiettivi? Anche in questo caso sono state proposte soluzioni molteplici:

Murray Rothbard (2001) ha proposto il ritorno all’oro come moneta (si badi bene all’oro, non al gold standard), ovvero ad una moneta coperta al 100% da riserve aurifere, e ad un sistema bancario in cui le banche commerciali sono obbligate a mantenere a riserva il 100% dei depositi a vista dei propri correntisti.

Friedrich Hayek (2008b) ha proposto una soluzione diversa, liberalizzando di fatto la produzione di moneta e lasciando che sia il mercato a decidere quale moneta privata adottare. Per quanto riguarda invece il sistema bancario, Hayek propone la soluzione del free banking, ovvero lasciare che siano le banche stesse a decidere quale percentuale dei depositi tenere a riserva ma senza che vi sia una garanzia statale dei depositi e quindi una protezione dai bank run. Anche in questo caso sarà il mercato a selezionare le banche più virtuose.
 
A quanto pare gli Stati sono invece intenzionati a seguire un’altra strada, ovvero la creazione di una moneta internazionale (o un paniere di monete) e di una vera e propria banca centrale mondiale.

E’ inutile dire che questa soluzione non risolverebbe affatto il problema dei cicli economici ma anzi lo renderebbe ancora più globale e distruttivo nei suoi effetti.

Come scriveva Rothbard (1990):

«l’obiettivo massimo della maggior parte dei leader politici americani e mondiali è la vecchia visione keynesiana di un sistema basato su un’unica moneta cartacea a corso forzoso, una nuova unità monetaria emessa da una Banca di Riserva Mondiale (BRM). Che la nuova moneta sia chiamata “bancor” (secondo la proposta di Keynes), “unita” (proposto da Harry Dexter White, funzionario del Tesoro americano durante la seconda guerra mondiale) o “phoenix” (suggerito dall’Economist) non è importante. L’aspetto essenziale è che tale moneta cartacea internazionale, sebbene immune dalle crisi delle bilance dei pagamenti (perché la BRM potrebbe emettere “bancor” a piacimento e determinarne la quantità per qualsiasi paese), offrirebbe un canale per un’inflazione mondiale illimitata, non disciplinata da eventuali crisi delle bilance dei pagamenti o da riduzioni nei tassi di cambio. La BRM sarebbe quindi il potentissimo soggetto che stabilisce la quantità di moneta in tutto il mondo e la sua suddivisione fra paesi. La BRM potrebbe assoggettare il mondo ad una illusoria inflazione controllata. Sfortunatamente, niente si opporrebbe al catastrofico olocausto economico dell’iperinflazione mondiale, niente eccetto la dubbia capacità della BRM di regolare l’economia mondiale»
 

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