Chiariamo subito una cosa: dal punto di vista cinematografico, tecnico/recitativo/narrativo, "The Butler" è un bel film?
Si, è un bellissimo film che riesce a coinvolgere e che per una buona ora riesce pure ad essere convincente nel suo apparente sguardo distaccato e quindi obiettivo sulle contraddizioni della storia americana e sui paradossi del paese della libertà e del razzismo. Gli attori "sentono" la parte e conferiscono realismo al tutto; Forest Whitaker è in stato di grazia e regge sulle sue spalle tutto l'impianto narrativo con una bravura a dir poco imbarazzante. Il regista Daniels (anch'egli afroamericano) controlla la scena con eleganza ed evita molte delle trappole in agguato negli stereotipi del dramma che rischierebbero di banalizzare tutto l'impianto narrativo. Non cede alla lacrima facile o alla battuta ad effetto e fa di tutto per convincere il pubblico che il suo è uno sguardo dall'alto, senza troppi giudizi morali.
La cronaca è questa sembra dire Daniels, allo spettatore il compito di farsi una sua idea.
In realtà non è per nulla così e lo si comprende pienamente nel finale dove arriva la bastardata infame (ma congegnata con grande furbizia) che rivela improvvisamente la natura del pensiero di questo regista (Consapevole o inconsapevole? Non ci è dato saperlo) che incarna in tutto e per tutto il personaggio principale del film; la figura cioè di un servitore non soltanto remissivo ma anche grato.
Qualcuno ha detto che gli americani prima che i territori, a suon di bombe e mezzi da sbarco, hanno conquistato i cervelli della gente con la propaganda e questo film dimostra quanto il popolo afroamericano sia caduto nella trappola partecipando attivamente alla realizazione di un prodotto che dovrebbe essere dalla loro parte (dalla parte della verità e della storia cioè) ma che finisce per concretizzarsi in un mega spot di quell'America virtuale, buonista e libera; inesistente ma inventata in migliaia di film, cartoni e fumetti usciti negli ultimi 70 anni.
Una storia vera quella del maggiordomo Cecil Gaines che ha servito per trent'anni alla casa bianca; una parabola che ha visto passare diversi presidenti e che ha attraversato un'intera epoca dominata da rivolte, episodi di razzismo, omicidi e contraddizioni di ogni genere appartenenti al dominante uomo bianco. Lui che fin da ragazzo fu istruito ad essere un "negro di casa", uno schiavo privilegiato rispetto ad altri e che impara a sopravvivere nel difficile mondo dei bianchi in modo intelligente ma remissivo, pensando soltanto al benessere della sua famiglia.
Una storia che nella sua semplicità e nella sua realtà poteva rappresentare un messaggio potente, un flm importante, sinceramente dalla parte delle minoranze e della verità storica; un film scomodo, un film che imponesse serie riflessioni specialmente in questi anni difficili. Ma il diavolo è astuto e la via dell'inferno è lastricata di buone intenzioni, direbbe qualcuno. Ciò che emerge infatti in modo davvero imbarazzante a chi guardi la pellicola mantenendo intatto lo spirito critico, è che il regista e gli stessi attori, probabilmente e sinceramente coinvolti nella realizzazione di un prodotto in cui evidentemente credono, si trasformano in burattini, trasmutano tutti nella figura del "negro di casa" volti a perorare la causa del padrone.
L'apice del film infatti, la rivelazione del suo intento propagandistico a favore del sistema mascherato da critica sociale, è l'immagine che il maggiordomo ha alla fine della sua carriera, quando ormai in pensione, dopo una vita in cui ha osservato e sofferto i paradossi di intere generazioni, vede arrivare alla Casa Bianca un presidente di Colore, il finto "negro" (in tutti i sensi) Obama che qui si innalza a simbolo dell'America paese della libertà in cui chiunque può diventare presidente. Ecco che con un trucco da prestigiatore il film rivela tutta la sua natura trasversale sapientemente costruita fino a quel momento e che sferra il colpo basso nel fornire l'immagine di un'America improvvisamente mondata da tutti i peccati.
Non c'è bisogno di una "giornata della memoria" come è stato fatto per gli ebrei in un paese che dovrebbe averne parecchie a partire dal genocidio dei Nativi Americani; non ci sono vergogne o panni sporchi: La schiavitù è stato un effetto collaterale, siamo un grande paese libero e ve lo dimostriamo mostrandovi un discendente di quegli schiavi andare al potere. Questo semplice fatto, mostrato con discrezione e senza inutili sentimentalismi nel film (qui la furbizia è sublime e ferocemente efficace) basta a cancellare tutto.
E' talmente rivoltante il tentativo finale di dare una "mano di bianco" a tutto ciò di cui l'america dovrebbe vergognarsi da lasciare allibiti. Il fatto che sia lo stesso popolo di colore a farsi carico di questa operazione, consapevole o no, lascia ancora più attoniti. E' difficile pensare che nel 2013 quella stessa gente non abbia il minimo dubbio in merito alle molte pagine oscure di Obama che riguardano la sua stessa origine oltre che il clamoroso voltafaccia rispetto a ogni singola promessa fatta in campagna elettorale da far passare un messaggio simile; ma sopratutto è imbarazzante pensare che non si siano resi minimamente conto di aver costruito l'assoluzione perfetta per quel sistema che mostrano nella sua realtà e senza falsi moralismi durante lo svolgimento del film. E' come se un incantesimo avesse colpito l'intero cast prima ancora di colpire il pubblico. Un'azione di propaganda magistrale proprio perchè i primi a crederci sono loro.
Consigliamo certamente la visione di questo film, sia perchè si tratta di un bel film, sia per comprendere i sottili meccanismi della propaganda in azione. Non fate però l'errore del cast: non commettete l'imprudenza di iniziare a crederci soltanto perchè ciò che mostra la pellicola fa parte della storia realmente accaduta. Non fatevi conquistare il cervello.