Skip to main content

Torino, una città inesistente

Posted in

E' alquanto sconcertante per il torinese rendersi conto che il posto che per lui è l'Ombelico del Mondo, per gli altri italiani è un posto di cui hanno sentito parlare solo per via della produzione di automobili FIAT (ora una ditta americana) o per una delle sue due squadre di calcio, la Juventus (che non è più una delle squadre della città da molto tempo).

Nessuno, se non per emigrarci negli anni '20 e '30 e poi ancora negli anni '50 e '60, ci si reca mai a meno che non sia francese (durante il festival della Cioccolata – una invenzione torinese - per le vie del centro si sente perlopiù parlare nella lingua transalpina), confermando il giudizio di Benito Mussolini, per il quale Torino, la Petite Paris, – ma per i torinesi è Parigi ad essere la Grand Turin – è “quella bastarda città francese”.

Eppure nel resto d'Europa usava essere rinomata: a turno “Il posto più salubre del mondo”, perché grazie alla bontà del progetto degli isolati e della fognatura napoleonica, quando era stata annessa alla Francia, era passata indenne alle epidemie di colera che colpivano tutta Europa (e fu il modello per la nuova Parigi di Napoleone III); “la città con la cucina migliore del mondo” (secondo Nietzsche); “la città più noiosa d'Europa, giustamente capitale della Prussia del Sud”, secondo Flaubert.

Si trattò, sempre, di una città militare e militaristica. La planimetria ricalca ancora quella dell'accampamento militare fortificato romano alla confluenza dei fiumi, base per le Legioni che non riuscirono a romanizzare mai del tutto il resto del Piemonte. Non fu mai una città nata e cresciuta spontaneamente come le altre: prima mantenuta in vita dai Romani e poi dai Savoia, che ne fecero la base savoiarda sul versante italiano per l'espansione militare che li portò a diventare Re d'Italia, cosicchè fu sempre caserma, palazzo reale e parlamento. Torino non amò mai i Romani, ma fu nondimeno distrutta da Annibale appena calato dalle Alpi: fin da allora i torinesi – in quell'epoca remota erano di stirpe celtica – non amano seguire nessuno, e non l'hanno fatto anche quando è costato loro molto caro. Non c'è nessun monumento commemorativo dei Romani, a Torino, ma la stauta di Brenno (il Capo Tribù Gallico che invase Roma e l'umiliò) troneggia sulla collina di Superga dove riposano le salme dei Savoia.

I Savoia non badavano a spese, per la loro città fortificata lontana dalla natia Chambery, ma intimamente loro possedimento. Come fecero dopo i francesi, costruirono gioielli architettonici, importando tutti gli architetti di grido che riuscivano ad attrarre a suon di monete d'oro a trasferirsi per un pò nella fredda confuenza tra la Dora e il Po. Torino è una città magnificamente ricca e coerente nella sua architettura tardo barocca: sconosciuta ai turisti non francesi, è amata dai locali che non possono che paragonare altre città in maniera critica al confronto con la città dei boulevars porticati che si intrecciano interminabilmente a angolo retto gli uni con gli altri.

Una città dove è impossibile perdersi: i punti di riferimento spiccano alti: le Alpi altissime ed imbiancate, che a volte pare di potere sfiorare con le dita, la collina verdissima, il grande fiume, la Mole (il più alto edificio tutto costruito in mattoni al mondo), i numerosi parchi, tra loro di forma e aspetto diversissimo, le piazze interamente porticate con miriadi di piccoli negozi superspecializzati, il tutto con una regolarità che per il forestiero è stucchevole, ma che per il torinese è familiare e rassicurante, oltre ad essere conveniente.

E' una città però costantemente in crisi, con alternanze di alti e bassi: gli alti sono alti come le montagne che la circondano ed i bassi la spronano a ritornare in alto. Infatti, da grande accampamento delle legioni che era durante l'Impero Romano, la grande Augusta Taurinorum, divenne uno sperduto e piccolissimo villaggio (sede però di un Vescovato) nel Medioevo, fino a diventare la capitale del Regno di Savoia. Poi, di nuovo la catastrofe: gli eserciti francesi l'assediarono e quasi distrussero coi loro cannoni d'assedio nel 1706 quando solo con una battaglia ferocissima vinta dal genio militare di Eugenio di Savoia le milizie imperiali asburgiche riuscirono ad evitarne la caduta dopo un lungo e parimenti sanguinoso assedio.

Ma quei secoli di guerra costante contro il già unificato Stato Francese, forgiarono la popolazione ed ancora oggi, anche senza averne ora molto diritto, i torinesi si immaginano “Bougianen”. Il soprannome dei torinesi nacque durante la battaglia dell'Assietta, quando una retroguardia piemontese riuscì a respingere i continui attacchi dell'esercito francese su quel colle di montagna. Quando la retroguardia fu richiamata dal comando del Conte di Bricherasio a ritirarsi (erano a corto di munizioni, dopo avere in cinque lunghissime ore ucciso più di 5.000 francesi, tra i quali 8 generali e lo stesso comandante del corpo di spedizione francese), Paolo Novarina, Conte di San Sebastiano, rispose sprezzante: “Dite a Turin che da sì nojàutri a bogioma nen!!!” (dite a Torino - la sede del comando - che noi da qui non ci muoviamo), inaugurando la testardaggine tutta torinese che non indietreggia mai, quando ha ragione. E furono i francesi a ritirarsi. La frase diventò un tormentone nella fanteria piemontese per i successivi 100 anni: “Bogé nen, neh!” (non muovetevi, eh!) era la frase che si sentivano ripetere le reclute fino alla nausea.

Poi nel momento più trionfale, dopo che Torino era diventata la capitale del Regno d'Italia, la prima capitale dal tempo degli antichi romani, di nuovo il disastro: la capitale fu portata prima a Firenze e poi a Roma. L'economia della città era quindi distrutta e il popolo torinese, che aveva costruito il regno col suo sangue, fu di nuovo costretto a versarne durante le proteste susseguenti alla perdita della capitale, con morti e feriti provocati dal nuovo esercito italiano che sparò a mitraglia sulla folla.

Ma di nuovo Torino si riprendeva e durante la bella epoque era la città più industriale d'Italia (ed una delle principali città industriali d'Europa), culla dell'Automobilismo, del Cinema e persino la sede della Prima Coppa del Mondo di Calcio, sponsorizzata dal magnate scozzese del tè, Thomas Lipton. Era – ed è ancora – la città più cosmopolita d'Italia, con una cultura all'avanguardia in ogni campo, dalla matematica (con il prof. Peano, un genio assoluto) alla letteratura popolare (con Salgari) all'editoria (con Einaudi) all'assistenza sociale (con i Salesiani di Don Bosco). Ma era sempre più distante, al contempo, dal resto d'Italia, e i torinesi si sentivano più inglesi, francesi o svizzeri di quanto non si sentissero italiani. Con ciò non fecero niente per ingraziarsi le simpatie del Regime Fascista. Mussolini visitò la città una volta sola e sotto nutritissima scorta, poichè temeva un attentato in quella che era la patria dell'estrema sinistra e del liberalismo in Italia. Durante il regime centinaia di giovani torinesi si rifugiarono a Londra, ma il resto della popolazione non perse certo la fama di essere cocciuta contro chiunque che secondo loro avesse torto. Gli scioperi, repressi duramente con assassini, pestaggi e galera, continuarono nelle fabbriche torinesi persino in piena guerra.

La seconda guerra mondiale fu tragica, per Torino. Per fermare le fabbriche gli anglo-americani la sottoposero a bombardamenti a tappeto che sfigurarono il centro, distruggendo il Teatro Regio, uno dei suoi gioielli architettonici, e cancellarono dalla faccia della terra quartieri popolosi come San Paolo. Nonostante ciò la produzione continuò e, in vista della sconfitta militare italiana, operai e dirigenti si prepararono a difendere le fabbriche, con le armi, da chiunque; incluso l'esercito tedesco, che ad un certo punto, dopo il voltafaccia del Re d'Italia, tentò di smantellarle per portare le macchine produttive in Germania. Torino fu l'unica città autenticamente partigiana: la resistenza non fu una guerriglia mordi-e-fuggi, ma una operazione militare portata avanti da gran parte della popolazione contro chi voleva rubare il prodotto del genio torinese. Ancora una volta operai e dirigenti dissero: “da sì nojàutri bogioma nen”. E l'esercito tedesco si ritirò. Quando le prime truppe britanniche entrarono al suono delle cornamuse in piazza San Carlo, furono accolte da un picchetto d'onore di operai armati e disciplinati. L'indomani tutti ritornarono al lavoro: bisognava ricostruire la città.

Come molte altre volte in passato la città fu ricostruita e diventò più ricca che mai. Fu il “Miracolo Economico”, che fece impallidire persino quello brillante di Stoccarda o Yokohama. Di nuovo la città fu all'avanguardia nella produzione di auto, macchine utensili, robot industriali, computers e un milione di immigranti in massa arrivarono pieni di speranza dal Sud arretrato che mai si era ripreso dalla conquista piemontese. Gli intellettuali torinesi potevano di nuovo sostenere il paragone con quelli parigini e tutto sembrava andare per il meglio. Il benessere economico, però, non era distribuito equamente e Torino divenne di nuovo il centro della protesta operaia. La classe operaia, a Torino, però era molto diversa dalla classe operaia di altre città italiane: a Torino non esisteva culturalmente sottoproletariaro o proletariato classico e la cultura e gli ideali della borghesia erano condivisi anche dalla classe operaia. In un certo senso Torino era e restava, come sempre, una città borghese, ordinata, pulita e dall'aspetto noioso, quasi priva di vita notturna, ma anche in sostanza priva di criminalità. L'unica banda criminale, i rapinatori di banche di grande successo della Banda Cavallero (nota allora come la Banda dei Marsigliesi, perché tra loro, durante le rapine, parlavano francese), non attaccava banche per diventare ricca, ma per finanziare una successiva rivoluzione proletaria contro le banche. Dei ladri gentiluomini, come solo a Torino ci si poteva aspettare che succedesse.

I torinesi non sono amati: sono rispettati ma non amati dagli altri italiani. D'altronde come si fa ad amare persone per cui il complesso di superiorità è considerato un dovere sociale, gente contemporaneamente cortesissima ma arrogante, brillante e noiosa, seria, salutista ma ubriacona, atea ma quando conta religiosissima, solidale e caritatevole ma che si fa rigorosamente i fatti propri e per cui la casa è un castello da difendere ad ogni costo, disciplinata ma irrequieta e “bastià 'n cuntrari” (imbastita al contrario, vale a dire che si oppone costantemente per ogni piccola cosa), gente che non aveva esitato ad azionare la ghigliottina per onestà rivoluzionaria per poi riaccogliere i Savoia con affetto ma disdegnosamente?

In occasione dei recenti Giochi Olimpici invernali i cronisti italiani restarono stupefatti: dove altro, in Italia, è possibile che 60.000 persone sugli spalti di uno stadio ubbidiscano ad un piano che li vede disciplinatamente eseguire complicate manovre coreografiche, perdipiù senza compenso, come fossero una sola persona?

Solo a Torino.

Torino è anche una città di confine tra due mondi del tutto incompatibili, ma, di nuovo, a Torino quello che è impossibile altrove è ormai diventato normalità. I razionalisti scientifici, ingegneri, industriali che durante il giorno tirano avanti la loro vita in maniera razionale e sensata, la sera si recano in cantine spesso profondamente incuneate sotto terra (Torino sotterranea sembra sia una città speculare a quella di superficie, con parecchi piani interrati e addirittura strade sotterranee, eredità della fortezza settecentesca) in una miriade di culti magici, massonici, paramassonici e Templari. Torino è la Città del Sacro Graal, la città magica degli esoteristi e degli alchimisti. In superficie però tutto tace ed apparentemente tutti dormono per essere pronti a produrre il giorno dopo.

Purtroppo, al giorno d'oggi, i torinesi stanno vivendo un altro periodo buio della loro storia: l'economia è di nuovo naufragata sotto il peso della globalizzazione, le fabbriche hanno chiuso in gran parte i battenti, il Comune è fallito, per la prima volta la corruzione impazza ed i suoi figli migliori sono di nuovo emigrati in Inghilterra, Stati Uniti e Francia. Ma anche questa emigrazione è diversa da quella del resto d'Italia. In un certo senso, è stata l'emigrazione a provocare la crisi, e non l'opposto come altrove: di fronte all'ennesima de-torinesizzazione della città, migliaia di persone si sono disperse.

 

Sarà questa la fine di una Città che è stata sempre usa a rinascere come la Fenice (ed il Teatro Regio) dalle proprie ceneri? Chi vivrà, vedrà...

Opzioni visualizzazione commenti

Seleziona il tuo modo preferito per visualizzare i commenti e premi "Salva impostazioni" per attivare i cambiamenti.

"geografia"

Ritratto di Calvero

Un atto d'amore, direi. Confermando ciò che dici, non mi sono mai costruito un oponione esaustiva di Torino e dei Torinesi. Ho letto indirettamente della città per questioni parallele, e ci sono passato sempre e soltanto vicino e mia fermato e così, solo un'altra grande città, per me: Napoli, che mai vi ho messo piede. Però di napoli e dei napoletani ho una "mappatura" decisamente più ampia. 

Al momento direi che la odio

Ritratto di Pike Bishop

Ma non e' stato sempre cosi'.  Lo spunto l'ho preso dalla nostra discussione nell'articolo su Lucas, il fumetto di MusicBand, perche' ho l'idea, appunto, che nessuno ne sappia granche' (spesso neanche i torinesi piu' giovani).

A proposito di Nietzsche

Ritratto di Pike Bishop

Torino. Città dignitosa e severa! Niente affatto grande città, niente affatto moderna come avevo temuto: ma una residenza del diciassettesimo secolo, dove su tutto era stato imposto un unico gusto, quello della Corte e della noblesse. Su ogni cosa è rimasta impressa una calma aristocratica: non vi sono meschini sobborghi; un’unità di gusto che si estende fino al colore (tutta la città è gialla o rosso-bruna). Ed è un luogo classico per i piedi come per gli occhi!

 

 

La sera sul ponte del Po: Magnifico! Al di là del bene e del male!

 

Su Torino non c'è niente da ridire:è una città magnifica e singolarmente benefica.

 

Torino non è un luogo che si abbandona.

Friedrich Nietzsche, Epistolario, 1849/89

Su quest'ultima posso insistere a dargli torto...

... e anche ..

Ritratto di Calvero

... per lui quella città si confaceva anche per una vista ormai deteriorata al limite; Torino si proponeva (credo proponga) in un'urbanistica adatta a piedi incerti, con "orizzonti" definiti e identificabili di là dei palazzi, per un orientamento più facile da gestire. Andava matto per il gelato e, in quel periodo, anche per dei panini particolari con il prosciutto. Poté gustarsi anche qualcosa di provocante per l'epoca, per quello che era soprattutto il suo decoro (imparruccato) nei "divertimenti" che, per uno come lui, potevano definirsi "movida" (altro che peste e corna di quel donnaiolo impenitente di Wagner). Assistette a una sfilata per l'elezione di una miss, peccato che allora significava osservare dei "manifesti/fotografie" delle modelle davanti un caffè. Fu la città del destino, com'è tristemente noto, quella dove, scrisse, cito: "lui era possibile" (vado a memoria).

 

 

 

 

Quando la nostalgia sopravanza la rabbia!

Evviva!Il Grande Pike è ritornato!

Il Pike che ho conosciuto nel 2006,

è tornato!

Per ora solo un augurio:BUONA INFORMAZIONE,

se ne  sente tanto il bisogno.Parlo di informazione vera,

non cervellottica o in CELANESE!

Ancora auguri Pike,e,come dicevano un po'di tempo fa,

AD MAIORA!        Ciao da amogaia.

<Tieni viva la capacità di meravigliarti>

 

amogaia